Si va a fasi, un po' come la luna. Passano mesi senza un film, persi per seriali, giochi di ruolo e libri notturni, poi per qualche strano ritmo esistenziale ti trovi a macinare pellicola come un tritatutto e se segui l'ispirazione vai anche a bersaglio con successo. Anche se il bersaglio è strano, ma tanto Sweeney Todd è l'ultima fatica di Tim Burton, il quale detto fra noi non sta bene. Egoisticamente è una fortuna, perché il suo evidente malessere lo porta a sublimazioni notevoli, come questa in cui si ritrova col suo attore preferito/feticcio Johnny Depp, strabiliante come al solito se non di più visto che canta pure, e la sua dolce signora Helena Bonham Carter che anche lei, visti i gusti in fatto di mariti, troppo bene non deve stare. Arricchiscono il cast Alan Rickman - al quale, dopo il successo con la serie Harry Potter, allegano sempre anche Timothy Spall - e Sacha Baron Cohen, che ha smesso i panni di Borat mica tanto e incarna un truffatore finto italiano memorabile. Bisogna aggiungere la fotografia di Dariusz Wolski e la scenografia di Dante Ferretti, perché creano molto più dello sfondo, sono l'atmosfera e il dispiegamento del dolore, della rabbia e della vendetta del malefico barbiere, come anche le arie in cui il suo tormento si fa musica. Già, perché come accennavo è un musical, sempre che un'etichetta riesca a esaurire la ricchezza immaginale di Burton, il quale o lo ami o lo odi ma non puoi dire che non sappia il fatto suo. E qui è tutto chiaro sin dall'inizio, dal ritorno a Londra di Sweeney in una nebbia spettrale e su note e versi che stabiliscono una misura e un tono che si dipaneranno inesorabilmente per il film, con appena una traccia di speranza implicita alla fine. Incredibile ma vero, ci sono perfino alcuni fotogrammi con un cielo normale, azzurro e con morbide nuvole bianche. Ma è un sogno...
domenica 24 febbraio 2008
sabato 23 febbraio 2008
Il titolo certe volte aiuta. David Cronenberg lo dichiara sin dall'inizio cos'è il film: una storia di violenza. Senza fronzoli, senza effetti speciali, senza abbellimenti. Un bel testo di regia, il che non ci stupisce più di tanto vista la firma: molti primi piani, ritmo lento - quello del carrello - colore tanto anni Cinquanta. Gente comune, tutto comune, uno di quei famosi nulla americani distanti anni luce dalle metropoli e da quello che immaginiamo degli USA - quelli che continuano a mandarci Bush tra i piedi, per capirsi. E il famoso chiodo che fece perdere la guerra, il dettaglio - meglio in questo caso l'avvenimento, l'imprevisto - che manda all'aria il castello di carte costruito con tanta cura. Una notorietà non richiesta, una visibilità di cui si farebbe a meno con tutto il cuore, e una serie di conti in sospeso improvvisamente all'incasso. Voglio essere ottimista e buono: forse il fatto che Viggo Mortensen abbia in tutto due espressioni è anch'esso una scelta di regia. Certo è che secondo me perde pesantemente il confronto con i cattivi, Ed Harris e William Hurt, al quale lo psicopatico viene benissimo! Non che ancora gliene voglia per Aragorn, ma mi ricorda Gurb, l'extraterrestre stupito del romanzo di Eduardo Mendoza: ha sempre l'aria di essere appena sceso dall'astronave e di non capire nulla di quello che accade. Lo affianca una bella e brava Maria Bello, che scopriamo non essere bionda naturale e decisamente piacevole da rimirare nature, anche lei molto molto più espressiva del marito. Ci sono molti sottotesti che vale la pena di segnalare, magari al volo: la potenza - o necessità - del perdono, lo strano rapporto tra l'ipocrisia e l'amore, la normalità come costruzione a volte molto dolorosa, l'inganno dell'ovvio. Nessuno di questi è esplicitato, bisogna cercarli. Cronenberg ha smesso di parlare per iperboli, ha deciso di mostrare che l'Altro si nasconde dove meno te lo aspetti, perfino in un baretto di Nessundove USA.
Oh beh, mi sono letteralmente ammazzato dalle risate Niente di che, per carità, ma ogni tanto anche le commedie più spensierate riescono ad andare oltre e a diventare un gioiellino di genere. Una notte al museo rientra tra queste! Ben Stiller in stato di grazia, circondato da un cast che si potrebbe quasi dire sprecato: Robin Williams, Mickey Rooney, Owen Wilson (del quale stranamente non si fa menzione nei titoli... mah!), si trova in una situazione complicata: un museo dove, grazie a una magica tavola egizia, tutto ogni notte prende vita, dagli animali impagliati alle miniature, dai Moai dell'isola di Pasqua alla statua in cera del presidente Teddy Roosevelt. Come se non bastasse i tre vecchi guardiani notturni, costretti alla pensione, hanno altri piani... Il vecchio trucco del tempo che stringe - l'alba può essere letale! - aggiunge tensione e urgenza a una serie di gag esilaranti, dove gli effetti speciali aiutano, ma non sono tutto. Memorabile la corsa a cavallo e in diligenza nel parco innevato, con in più un modellino di truck di plastica gialla guidato da due miniature e inseguito dallo scheletro di un Tirannosaurus rex... Gli sceneggiatori avevano trovato lo spacciatore giusto
domenica 17 febbraio 2008
La formula del poeta greco Euripide, antica di venticinque secoli, è più attuale che mai: "L'atteso non si compie, all'inatteso un dio apre la via". L'abbandono delle concezioni deterministe della storia umana, che credevano di poter predire il nostro futuro, l'esame dei grandi eventi del nostro secolo che furono tutti inattesi, il carattere ormai ignoto dell'avventura umana devono incitarci a predisporre la mente ad aspettarsi l'inatteso per affrontarlo. E' necessario che tutti coloro che hanno il compito di insegnare si portino negli avamposti dell'incertezza del nostro tempo.
E. Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina, 2001, p. 14.
E. Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina, 2001, p. 14.
sabato 16 febbraio 2008
Ma guarda guarda! Uno 007 del tutto fuori dai canoni, che ha suscitato un vespaio di polemiche a partire dalla scelta del protagonista, Daniel Craig, giù giù per tutto il resto degli affronti all'ortodossia fleminghiana. Eppure... A me è piaciuto assai! E sono piuttosto stranito per aver dato retta al vespaio di cui sopra e non esserlo andato a vedere al cinema, cosa cui mi riprometto di ovviare quest'estate, arene permettendo Certo, non ha un tubo a che fare con l'originale, a parte qualche cliché, ma chissene, se mi passate il francesismo. Non c'è molta classe, né lavori di fino, né traccia dell'aplomb anglosassone, c'è rimasta in pratica solo M. Ed è pure lungo una quaresima, ma te ne accorgi solo perché quando ti aspetti The end invece continua è spiazzante! E stavolta la fatidica sequenza iniziale, che stava diventando quasi ridicola per la complicazione inaudita delle trovate, è sempre fuori dalla grazia di Dio, ma è resa assolutamente imperdibile da un cattivo asso del parkour che si muove con agilità sovrumana e permette di capire da subito che James non è più quello di una volta: il primo si infila in pertugi che non diresti mai e il secondo sfonda le pareti, il primo vola su per ponteggi e travi, l'altro devasta tutto con una ruspa... Sgraziato ma efficace, direi, come per tutto il resto del film. Accanto una spettacolare Eva Green e su tutto un fuoco d'artificio di colpi di scena, avversari triturati e cuori infranti. Insomma, proprio quello che mi ci voleva oggi!!!
P.S. per chi non sapesse cos'è il parkour incollo un video qui sotto...
P.S. per chi non sapesse cos'è il parkour incollo un video qui sotto...
venerdì 15 febbraio 2008
Francis Veber è uno dei miei registi preferiti e non per una questione di assonanza sociologica I film precedenti, La cena dei cretini e soprattutto L'apparenza inganna, che risalgono a prima di questo blog, sono due delle cose più intelligenti che ho visto al cinema. Nel secondo, Daniel Auteuil è fantasmagorico, con la sua faccia disordinata da travet sotto un enorme preservativo alla sfilata del Gay Pride... Qui lo vediamo di nuovo, ma in una versione un po' troppo caricaturale, come sono un po' troppo tutti i personaggi, tanto estremizzati da svalicare nell'inverosimile. La splendida modella che non è altro che un'intelligente creatura acqua e sapone, il protagonista dagli splendidi occhi sbarrati che è un torso di broccolo senza pari e via dicendo. Non che il film sia male, senza paragoni è una buona commedia dove molti fanno cose per amore e sentimenti e non per denaro e vedere che qualcuno ancora lo immagina e lo trova giusto è rinfrescante. Il problema sul quale spendo due parole è invece la traduzione del titolo, che in quanto a squallore ricorda l'abominio di cui fu vittima Truffaut: allora il titolo francese era Domicile conjugale, che si traduce da sé, e la brillante versione italiana Non drammatizziamo... è solo questione di corna. Oggi l'originale è La doublure (la controfigura) e la traduzione la leggete nella locandina. Appena meno casareccio, ma è anche vero che il film di Truffaut è del 1970, questo del 2006. Come dire, 36 anni buttati nella spazzatura
giovedì 14 febbraio 2008
Quasi quasi mi viene da dire "Era ora!" Una commedia che non vuol essere altro che situazioni divertenti e svago, senza ammiccare a dimensioni altre, senza volerci infilare surrettiziamente spunti di riflessione dei quali, a volte, siamo più che disposti a fare a meno. Jennifer Lopez e Jane Fonda mettono in scena uno dei conflitti più vecchi del mondo, alle spese di un Michael Vartan assolutamente di spalla, ruolo che da Alias gli riesce piuttosto bene *grin* J-Lo, come sempre, è più che dignitosa anche se non memorabile, mentre Jane Fonda tratteggia un personaggio di suocera pazza da legare con picchi di notevole efficacia e crudeltà. La cosa migliore del film, però, è l'assistente della pazza, Wanda Sykes, assolutamente impagabile
domenica 10 febbraio 2008
Un film sull'inverno, a stento lenito alla fine da un tocco di primavera, dalle luci e i colori di una sfilata newyorchese. Film lento, la storia di un uomo senza qualità grigio come l'inverno a Chicago con un rapporto fallito alle spalle, un legame difficile con un padre celebre (un ottimo Michael Caine), una scarsa autostima. Però bravo nel suo lavoro, leggere le previsioni meteo in TV. Talmente bravo che un network nazionale lo nota e gli propone un lavoro. Molti avvenimenti tentano di frapporsi e quasi non lo accetta. Ma poi, dopo la sola scena del film che non segni un qualche fallimento, decide di sì. Non è un happy ending tradizionale, è quello che lui chiama "realizzazione all'americana", qualcosa che prende in mancanza di meglio perché vive in un "mondo di merda" e non c'è altra scelta, ma non si fa illusioni. Ed è la forza del film, una storia americana del tutto priva di trionfalismi, vuota come spesso accade nella realtà, recitata da un Nicolas Cage perfettamente nella parte, che sa di essere sotto sotto un pagliaccio, cibo spazzatura come quello che i suoi detrattori gli tirano con comica e tragica regolarita per strada e che lui censisce con l'accuratezza di una lunga frequentazione. Credo sia uno dei gesti simbolici più forti che ho visto da tempo al cinema, questa lapidazione grottesca dove è detto tutto sulla way of life americana, senza furore, ma senza appello. Noto solo en passant, per non ripetermi troppo , che è anche e forse soprattutto un film sulle relazioni umane e sulla crescente incapacità di mantenerle in vita, proprio per questo vuoto interiore che consuma e spinge a cercare modi di ferire più che di carezzare, solo per riuscire a provare qualcosa, per avere la prova di essere vivi. E il messaggio conclusivo di speranza minimale ci sta tutto sommato bene, di nuovo senza squilli di tromba, per semplici motivi di sopravvivenza.
sabato 9 febbraio 2008
A caldo, senza neanche starci a ragionare sopra, eventualmente poi scriverò qualcosa di più sensato su Ciottoli, ma adesso è il caso di buttar giù delle impressioni che poi sfuggono. Come il silenzio irreale alla fine del film, col pubblico che si guardava intorno quasi imbarazzato di essere in procinto di tornare alla sua esistenza fatta di cose e schemi. Attonito dall'essere forzato da uno scombinato ventitreenne americano a confrontare il paradosso dell'adesione spontanea e irriflessa alla vita nomade da lui vissuta per due anni e della sua risoluta, razionale, derivata negazione subito dopo, al riaccendersi delle luci. Quando l'idea di non avere un tetto, o un lavoro, o un futuro non è romantica ma terribile e scuoti la testa pensando che era ben strano, questo Chris McCandless e dopo tutto se l'è cercata... Eppure, se appena hai sentito quello stesso richiamo, magari in minore, non è difficile immaginarsi quanta forza gli sia servita per darci quel taglio. Quello che in una delle prime scene dà alle carte di credito, ai documenti e a tutti i simboli della struttura. Forbici e fuoco per un rito liberatorio, un sogno alla Rousseau o Thoreau, di quelli aut/aut che negano alla radice ogni forma di regola e legame, con lo stato o con la gente, in nome di una purezza naturale che dovrebbe restituirti a te stesso. Come se tu potessi essere senza gli altri, senza nessun altro. E Alex Supertramp, come si ribattezza giustamente all'inizio dell'avventura, è sempre solo, è sempre il terzo anche se non incomodo delle situazioni in cui si imbatte strada facendo, surreali, simpatiche, quasi sempre belle, a testimoniare che per un tratto la Fortuna è con lui e col demone immenso che porta in sé. Queste vite che tocca ne sono rigenerate, perché lui è pura pulsione ad errare e tragedia appena sotto la superficie, scosse e restituite a un'effervescenza anche dolorosa. Ma non lui, che ha solo una cosa in testa: l'Alaska, il mitico Nord e il senso della sfida. In questo, forse, è più occidentale di quanto non sospetti: la rinuncia ai mezzi, al denaro ha una componente agonistica formidabile, oltre quelle etiche e filosofiche più ovvie, e il diario del soggiorno nel Magic Bus segnala prove e traguardi, quello che in Oriente si chiamerebbe un intento poco in accordo col sogno di armonia. Un dissidio insanabile, così nostro, tra Natura e Cultura, con quei cieli sfregiati da aerei ossessivamente ripetuti, come visi sfregiati, come un costante atto di accusa. E un altro livello forse troppo accentuato, l'americana ossessione parentale che addita nelle colpe dei genitori la sorte dei figli. Credo che Chris McCandless fosse molto di più del figlio di una coppia infelice. Era un viandante che aveva frainteso il senso della libertà e che si è accorto troppo tardi che "la felicità è reale solo quando è condivisa".
venerdì 8 febbraio 2008
La NASA compie cinquant'anni e per festeggiare cosa fa? Spara i Beatles nel deep space, ben oltre le frontiere del sistema solare, cosicché anche eventuali extraterrestri dall'udito fino possano godersi le note di Across the Universe. Visto l'entusiasmo che l'omonimo film ha recentemente generato in me, ho deciso di partecipare anch'io ai festeggiamenti - tra i migliori che mi vengano in mente per il fatidico '68 che quest'anno ci scasserà per altri versi terribilmente le scatole - proponendo il testo della canzone in questione e qualche cenno storico. Composta ai primi del '68, anche se pubblicata nel '70, è interamente opera di John Lennon ed è, IMHO, una delle cose migliori da lui scritte. E' strettamente connessa alla cultura psichedelica del periodo, ma ancor più all'intenso studio della cultura indiana cui i Beatles, sull'onda di quella, si dedicavano all'epoca. Compare nello splendido Let It Be, insieme ad altri capolavori più o meno noti come The Long and Winding Road, One After 909 e I Me Mine. Buon ascolto!
Words are flying out like
endless rain into a paper cup
They slither while they pass
They slip away across the universe
Pools of sorrow waves of joy
are drifting thorough my open mind
Possessing and caressing me
Jai guru deva om
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Images of broken light which
dance before me like a million eyes
That call me on and on across the universe
Thoughts meander like a
restless wind inside a letter box
they tumble blindly as
they make their way across the universe
Jai guru deva om
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Sounds of laughter shades of life
are ringing through my open ears
exciting and inviting me
Limitless undying love which
shines around me like a million suns
It calls me on and on across the universe
Jai guru deva om
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Jai guru deva
Jai guru deva
Words are flying out like
endless rain into a paper cup
They slither while they pass
They slip away across the universe
Pools of sorrow waves of joy
are drifting thorough my open mind
Possessing and caressing me
Jai guru deva om
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Images of broken light which
dance before me like a million eyes
That call me on and on across the universe
Thoughts meander like a
restless wind inside a letter box
they tumble blindly as
they make their way across the universe
Jai guru deva om
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Sounds of laughter shades of life
are ringing through my open ears
exciting and inviting me
Limitless undying love which
shines around me like a million suns
It calls me on and on across the universe
Jai guru deva om
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Nothing's gonna change my world
Jai guru deva
Jai guru deva
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