"Quante vite stai vivendo?" chiede il trailer e risponde "Una pubblica, una privata, una segreta". Il problema è che il segreto è un affar serio, quello stesso che il cinismo di qualche secolo fa affermava essere già troppo diffuso se lo si conosceva in due. Con ridondanza durandiana, il tema torna a ogni piè sospinto, perfino nella psicoterapia inoffensiva di Rocco, nei suoi rapporti - così ben disegnati - con la figlia adolescente: è più che altro un'ossessione, pensabilissima da parte di persone costrette a immaginarsi monodimensionali, prevedibili e accettabili contro ogni pressione interiore ed esteriore. Dalla difficoltà di una fedeltà adamantina in condizioni quotidiane di perenne tentazione vestita da esigenza di fuga e di affermazione all'altrettanto complicata percezione di sé alla luce di un solo imperativo, peraltro profondamente discutibile; dal disconoscimento e conseguente incapacità di apprezzare la propria complicata vita emotiva alle suggestioni onnipotenti di tecnologie che promettono sempre più di quanto sono in grado di mantenere, la sopravvivenza al tempo della connessione è sempre più delicata e acrobatica. Aggiungiamoci poi la contraddittorialità del segreto e ne verrà una pozione diabolica: il segreto rafforza e riafferma la propria unicità e il proprio potere, ma richiede una sostanza soggettiva salda e compatta per essere sopportato. Altrimenti questa la si finge e intanto si cerca in ogni modo, consapevole o meno, di farsi beccare, proprio come i serial killer di cui si discute a un certo punto attorno al tavolo. Il segreto suppura oppure si concentra e comprime come una molla che vuole scattare, in un'affermazione che è ad un tempo - anche lei! - titanica e autodistruttiva. Segreti peraltro banali, tranne qualcuno; intuibili, a volte quasi ovvi, che rivelano l'infinito gioco di specchi dietro al quale ci nascondiamo spesso, feriti, sbriciolati, irriconoscibili.E ti chiedi: ha senso pretendere da altri quello che non sappiamo dare a noi stessi? E' una pecca atavica e inevadibile oppure è frutto di una percezione errata di noi, mutuata da convinzioni apprezzabili, ma ormai portate all'eccesso, devastanti? Non dovremmo invocare una misura anche in questo, una tolleranza e un'accoglienza reciproche che nascano dal mutuo riconoscimento? Quello vero, del proprio e dell'altrui essere cangianti, mutevoli nell'essenza, incompleti per definizione, umani?

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