martedì 12 marzo 2013

Django Unchained

Io non so quanto si possa restare geniali, né in effetti cosa voglia dire di preciso. Né, ancora, se voglia dire sempre la stessa cosa, lungo la vita di qualcuno, autore, artista, studioso, fabbro o qualunque strada abbia scelto. So però che ammiro Tarantino per la fedeltà al suo cammino, che non è sempre la stessa, ma in certo modo sì. Django non è Pulp Fiction, né altri suoi capolavori, ma è suo, senza un attimo di esitazione nell'attribuzione. E la narrazione è più distesa, meno sperimentale, forse sì. La domanda però è: e allora? (avevo in mente un'altra cosa, ma oggi mi sento ricercato :) Essere un innovatore significa innovare sempre e comunque o anche ricordarsi il gusto di una bella storia ha la sua importanza? Le parole d'ordine di questo tempo stupido cominciano seriamente a darmi sui nervi: l'obbligo al colpo di genio costringe a idiozie colossali e ad altrettanto colossali fraintendimenti, perché si può pensare che bastino i colpi di genio (o gli effetti speciali, per venire a una categoria corrente di deus ex machina) per creare una storia che valga la pena di essere narrata e ci si ritroverà con una bella gara a chi la spara più grossa... Parlavo di cinema, comunque, fedele specchio dei tempi, tant'è che al racconto di Django si è anche obiettato di essere razzista e irrispettoso. Altra tara esasperante: parlare di qualcosa è per forza essere pro o contro, l'aut/aut è arrivato a un tale punto di saturazione da pretendere di impedire ogni altra forma di comunicazione o espressione. Così se scrivo di Hitler divento nazista od offensivo per qualcuno; se giro un film sui razzisti manco di rispetto ai discendenti o sono a favore del Klan... Si può avere pietà di una cultura tanto stupida? Che pratica senza esitazione l'ipocrisia del politically correct senza rendersi conto di quanta magia vi si nasconda e non della migliore; che pensa sia meglio tacere che tentare di affrontare un problema o fare i conti col proprio passato e con la propria natura ambigua. Meno male che il buon Quentin questi problemi infimi non se li pone :)

venerdì 1 marzo 2013

Hysteria

Posso dirlo, non l'avrei mai immaginato :) Avevo visto il trailer, ma pensavo di aver frainteso. Non che si trattasse dell'invenzione del vibratore nel vero, reale senso del termine, né che la nostra briosa cultura avesse messo a punto procedure specifiche per il trattamento di una "malattia" che altro non era se non il frutto della rimozione radicale della nostra parte animale, nello specifico la parte femminile che da millenni terrorizza noi maschietti a livelli patologici. E invece... Parliamo proprio di questo, di una delle più raffinate strategie del paradigma scientifico-tecnologico - e medico, aggiungerei, anche se mi viene il dubbio che forse gli aggettivi andrebbero redistribuiti - per difendere la sua visione del mondo. Una visione parziale, distorta, allucinata che solo secoli di pratica sono riusciti a trasformare in senso comune e che le diverse figure irriducibili scontano, alla fine dell'Ottocento come oggi. Già, perché il motivo per cui hanno girato questa piacevole commedia - che ha anche il pregio di far ridere, incredibile ma vero! - non è tanto raccontarci quanto i nostri antenati temessero il piacere femminile; piuttosto mostrare come, dietro il velo del discorso scientifico, si nascondano pregiudizi, paure e interessi dei quali spesso neanche i vari paladini sono consapevoli. Spesso, ma non sempre. La definizione della "malattia" è interna al sistema; sovente ha dei motivi, un'utilità, una capacità di cura; a volte risponde ad altro: l'equilibrio del sistema stesso, la difesa delle sue allucinazioni o dei suoi pilastri (che capitano essere, sempre a volte, la stessa cosa), la distribuzione del potere nel suo seno. Ieri era l'isteria, oggi forse la sindrome da deficit d'attenzione o le difficoltà a socializzare o qualche forma di pazzia più adatta di altre per risolvere anomalie o mascherare verità scomode. Sì, con Hysteria si ride, ma è opportuno pensarci sopra, dopo.