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domenica 19 febbraio 2017

The Disunited States of America

Ogni tanto mi faccio violenza da solo, lo ammetto. Pare serva, però. E così invece di una rilassante fuga in qualche serial stasera mi sono dedicato a un docufilm di stretta attualità, The Disunited States of America. Non ne sono affatto pentito, anche se l'amarezza è alle stelle. Non tanto per lo spoiler - si sapeva benissimo chi fosse l'assassino - quanto per la banalità del tutto, che ti sbatte in faccia l'inutilità delle analisi senza uno straccio d'anestesia. Di quasi tutte le analisi, almeno: Michael Moore l'aveva detto con largo anticipo e nel documentario i 5 punti con cui aveva giustificato il suo scoramento sono belli squadernati, come dicevo senza filtri. L'avevo letto, al tempo, ma pur con un senso di gelo nell'anima mi ero detto "maddai, è oltre il pensabile che vinca uno così!".

Complimenti vivissimi allo scienziato sociale! Non tanto per la riluttanza ad accettare il mondo fuori dall'esperienza diretta - e ad accettare l'esperienza diretta per quel che è - quanto perché il titolo del docufilm chiarisce inequivocabilmente che la cosa può essere letta da un altro punto di vista, che mi è maledettamente familiare. Direi meglio che DEVE essere letta da quel punto di vista, che per il momento continuo a riscontrare in certe dinamiche e a rifiutare in altre.
 
"A divisive campaign," l'hanno chiamata. All'anima, verrebbe da dire alla romana, ed è proprio questo il punto: quando parli da anni del predominio incontrastato del paradigma esclusivo e dell'operazione della divisione, come puoi aspettarti che questa non si rivolga sempre più contro l'esistente che ironicamente vorrebbe usarla per tutelarsi? Da decenni assistiamo alla lacerazione di tutto ciò che non è "puro", omogeneo: stati plurinazionali, minoranze più o meno immaginarie, partiti politici e movimenti. Per quale motivo a un certo punto la spirale dovrebbe arrestarsi? Baudrillard l'ha detto magnificamente già nel 1976: "La definizione dell'Umano è, al livello della cultura, inesorabilmente ristretta: ogni progresso 'oggettivo' della civilizzazione verso l'universale ha corrisposto a una discriminazione più stretta, al punto che si può intravvedere il tempo dell'universalità definitiva dell'Uomo, che coinciderà con la scomunica di tutti gli uomini - e in cui la purezza del concetto splenderà sola nel vuoto".

Come pensare che qualcosa - qualsiasi cosa - resti unito quando il quadro generale all'interno del quale è nata si è lentamente alterato così da privilegiare unilateralmente, maniacalmente la divisione? L'urgenza della riscoperta dell'autoaggregazione, della coevoluzione è assoluta, ma come si potrà realizzarla in tempo, quando la gran parte dell'umanità non ascolta, non vuole ascoltare e non può più ascoltare per miopia, incapacità, vergogna, frustrazione? C'è in effetti ben poco da stare allegri.

domenica 12 febbraio 2017

Da Franco Rella - Miti e figure del moderno

http://www.deviantart.com/art/Epiphany-64380301La memoria involontaria ci dona immagini piene di verità, ma questa verità è inafferrabile. Se noi cerchiamo di ripetere il gesto che ha suscitato il lampo della memoria involontaria, questo gesto si fa abitudine, e l'immagine svanisce nel grigiore del quotidiano. Bisogna rendere l'involontario necessario, e, in qualche modo, ripetibile (p. 14).

http://www.deviantart.com/art/Unexpected-644057501 

La foresta di segni e di simboli, anziché indurre al terrore o all'orrore, proprio in quanto inestricabile mescolanza di contrari, dà alla nostra vita "sapore ed ebbrezza". L'ebbrezza che nasce dal "meraviglioso quotidiano", dal "gusto e dalla percezione dell'insolito". La porta del mistero si è aperta. L'errore l'ha dischiusa. Infatti, proprio ciò che è confuso contiene quelle serrature che "chiudono male verso l'infinito" (p. 98)

lunedì 30 gennaio 2017

Split

Le cose tendono a sovrapporsi, a rinviare le une alle altre. E la trama di questi rimandi disegna un clima, un affresco. Dice Durand, un "bacino semantico". Credo che valga anche l'idea di Zeitgeist, lo spirito del tempo: una sensibilità comune, un ritorno a spirale di temi e simboli che illustrano degli archetipi, le costellazioni che si avviano allo zenith mentre altre si inabissano pian piano dopo lunghi periodi di predominio.
Che c'entra questo con Split, direte voi? Forse niente, forse parecchio: queste cose non hanno un modo oggettivo di darsi a vedere; fanno anzi le smorfiose, ammiccano, spariscono, si travestono. Baudelaire, molto più versato di me, parlava della realtà come "foresta di simboli" per orientarsi nella quale serve una certa competenza. Un certo fiuto fatto di monomanie, intuizioni, aperture anche eccessive. Però c'è una cosa: ho appena finito di scrivere un saggio dove traccio qualcuno di questi rinvii andandomela a prendere con gli zombie, che sono una delle costanti della fiction del periodo. Uno dei tratti che li caratterizzano è quello dell'orda, della moltitudine caotica che distrugge ogni cosa: il formicolio, il brulichio rinviano allo schema dell'animato di Durand, al terrore irriflesso per l'opera del tempo.

Ora Kevin - il bravissimo James McAvoy - ospita 23 personalità, che già di per loro sono un bel numero. Alcune sono carine, gentili; altre diabetiche; altre meno alla mano, tanto che il gran consesso tende a impedir loro di venire alla luce. Per qualche strano motivo, però, al momento hanno preso il potere grazie a un bambino di nove anni e si scopre che le altre le chiamano... l'Orda. Ce n'è abbastanza per insospettirsi. Che dirne? Che dopo aver devastato il mondo esterno, il tornado che sta investendo la cultura occidentale si sposta nell'intimo di ognuno, scoprendo alla fine che il mito dell'individuo era proprio questo: un mito, ora al tramonto. E che le tante dimensioni con le quali conviviamo di solito senza farci troppo caso, stufe di questo continuo disconoscimento, stanno per devastare i territori interiori come The Walking Dead hanno fatto dell'America? Si potrebbe e non si andrebbe granché lontano da un'interpretazione plausibile, in linea con le tematiche che affronta di solito M. Night Shyamalan. Il quale però rilancia e scopre silver linings che altrove non si trovano. Motivi di speranza - o almeno di dubbio - fortemente contraddittoriali, ma che vanno a intercettare altre questioni aperte del paradigma dominante: i rapporti tra mente e corpo, ad esempio; il perenne equivoco dell'animalità umana. Anomalie che la scienza si trova tra i piedi - come la faccenda di un'unica personalità diabetica e l'ipotesi buttata lì che le diverse personalità non si limitino ad essere cortocircuiti del cervello, ma riescano a modificare struttura e caratteri del corpo. Anomalie che culminano nella Bestia e nell'interrogativo che suscita su poteri umani nascosti e forse sviati da una certa forma mentis... Sul film ho qualche riserva, sull'immaginario che sonda nessuna 😄

domenica 15 gennaio 2017

Perfetti sconosciuti

Be' decisamente un bagno di sangue, più che un film! Un bagno di sangue necessario, ben scritto, con un cast eccellente - sono talmente tanti e bravi che mi risparmio le menzioni dirette se non per Marco Giallini e Valerio Mastandrea che come ormai saprete è uno dei miei preferiti in assoluto - ma pur sempre un bagno di sangue. O anche una mattanza, tanto per spiegarmi con efficacia. Non credo sia solo questione di ipocrisia, anche se l'ipocrisia regna sovrana: c'è molto d'altro, delle falle nell'autorappresentazione che cominciano a esorbitare seriamente l'intenzionale per avvicinarsi all'essenziale. "Siamo frangibili," dice alla fine Giallini, che comunque è quello che ne esce meglio. Molto più frangibili di prima, per un'inveterata prassi a pensarci meglio di quel che siamo e a rifiutare a prescindere i lati oscuri e i desideri men che armonici ai vari modelli demenziali che ci vengono martellati addosso sin dalla più tenera età. L'ossessione diurna per la trasparenza e l'illusione che essere razionali equivalga ad essere buoni e inappuntabili giocano scherzi pessimi, cui possiamo sommare senza problemi l'atteggiamento moralistico, farisaico e la falsa superiorità pezzente che porta con sé, che l'amico Cosimo dimostra alla perfezione. Ne deriva un mix infernale che si sedimenta e dà a vedere nel grande imputato di questi anni, lo smart phone - che tanto smart, dopo il film, non sembra e soprattutto non sembra appartenere a smart people di sorta.

"Quante vite stai vivendo?" chiede il trailer e risponde "Una pubblica, una privata, una segreta". Il problema è che il segreto è un affar serio, quello stesso che il cinismo di qualche secolo fa affermava essere già troppo diffuso se lo si conosceva in due. Con ridondanza durandiana, il tema torna a ogni piè sospinto, perfino nella psicoterapia inoffensiva di Rocco, nei suoi rapporti - così ben disegnati - con la figlia adolescente: è più che altro un'ossessione, pensabilissima da parte di persone costrette a immaginarsi monodimensionali, prevedibili e accettabili contro ogni pressione interiore ed esteriore. Dalla difficoltà di una fedeltà adamantina in condizioni quotidiane di perenne tentazione vestita da esigenza di fuga e di affermazione all'altrettanto complicata percezione di sé alla luce di un solo imperativo, peraltro profondamente discutibile; dal disconoscimento e conseguente incapacità di apprezzare la propria complicata vita emotiva alle suggestioni onnipotenti di tecnologie che promettono sempre più di quanto sono in grado di mantenere, la sopravvivenza al tempo della connessione è sempre più delicata e acrobatica. Aggiungiamoci poi la contraddittorialità del segreto e ne verrà una pozione diabolica: il segreto rafforza e riafferma la propria unicità e il proprio potere, ma richiede una sostanza soggettiva salda e compatta per essere sopportato. Altrimenti questa la si finge e intanto si cerca in ogni modo, consapevole o meno, di farsi beccare, proprio come i serial killer di cui si discute a un certo punto attorno al tavolo. Il segreto suppura oppure si concentra e comprime come una molla che vuole scattare, in un'affermazione che è ad un tempo - anche lei! - titanica e autodistruttiva. Segreti peraltro banali, tranne qualcuno; intuibili, a volte quasi ovvi, che rivelano l'infinito gioco di specchi dietro al quale ci nascondiamo spesso, feriti, sbriciolati, irriconoscibili.

E ti chiedi: ha senso pretendere da altri quello che non sappiamo dare a noi stessi? E' una pecca atavica e inevadibile oppure è frutto di una percezione errata di noi, mutuata da convinzioni apprezzabili, ma ormai portate all'eccesso, devastanti? Non dovremmo invocare una misura anche in questo, una tolleranza e un'accoglienza reciproche che nascano dal mutuo riconoscimento? Quello vero, del proprio e dell'altrui essere cangianti, mutevoli nell'essenza, incompleti per definizione, umani?

domenica 1 gennaio 2017

Now You See Me

Ogni volta che vedo Now You See Me mi viene voglia di studiare magia e illusione! E non credo di essere il solo; purtroppo la vita è già andata per conto suo, quindi mi toccherà aspettare la prossima, o quelle dopo se considero il cantante rock e l'artista... Mah, per il momento mi limito, da artigiano delle parole, a buttare giù qualche idea in proposito.
Idee tanto per cambiare scomode, dato che vanno a finire su un tema che mi frulla in testa da un po' ed è parecchio destabilizzante
Cosa è realtà?
Ci siamo asserragliati in un sistema di rappresentazioni che pretendiamo consolidato e affidabile. Come si dice, "le chiacchiere stanno a zero", "questi sono i fatti" e altre consimili amenità, tutto per affermare e confermare che c'è un set di certezze dalle quali non si scappa, che stanno lì e ci proteggono da noi stessi e dal resto delle cose che si aggirano ai limiti. Poi arrivano quattro Cavalieri - strano nome, no? per dei truffatori...  - che ci dimostrano, fatti alla mano, che le certezze possono liquefarsi, mutare. Peggio, essere manipolate da chiunque sappia come.
Com'è possibile? Dov'è l'inganno? Strano a dirsi, per la massima parte l'inganno è in noi, siamo noi. I falsi assunti sulla nostra attenzione e capacità di verificare ciò che essa ci riferisce, i falsi racconti su quanto siamo presenti a noi stessi. Ad andare un po' oltre, i falsi racconti su noi stessi.
Ci sono precondizioni sul nostro essere presenti a noi stessi, filtri involontari e distorsioni che andrebbero conosciuti, perché devi sapere con chi hai a che fare, anche se sei tu stesso quello con cui hai a che fare: punti ciechi, integrazioni, punti deboli della tua autorappresentazione che saranno sempre lì e che dovresti cercare di ricordarti, quando trinci giudizi o ti compiaci di te. Perché in fondo non sei male, ma sei diverso da quello che ti racconti. E che ti raccontano.
Certo, non è detto che si incontrino professionisti di questo stampo in una vita normale. Siamo tutti un po' professionisti di questo genere, però. Intuiamo quando chi ci sta di fronte ha talloni di Achille o lascia trapelare debolezze o messaggi che preferirebbe tenere per sé, a essere bravi intuiamo anche quando qualcuno cerca di fare lo stesso con noi. E' episodico, però, e le difese intime tendono a negarlo, perché non ci piace sentirci esposti, indifesi, incapaci di badare a noi stessi. Ho il sospetto che il non esaltante riscontro di botteghino di questi bei film sia legato anche a questo: alla sensazione semiconsapevole che il racconto che narrano abbia a che fare con noi anche troppo, al di là degli splendidi effetti e della vera magia di molte delle scene. E' probabile, ma un peccato. 

martedì 27 dicembre 2016

Stranger things

Che dire? Si commentava qualche tempo fa, con altri iniziati al fantasy/horror/non mainstream, che in effetti abbiamo vinto 😀 Quasi non ce n'eravamo accorti, tanto l'atmosfera si è fatta pian piano accogliente e così ci siamo ritrovati di punto in bianco "padroni della scena". Con i codici, le battute, il background e decenni di esperienza in cose fino all'altroieri futili, inutili e spesso dannose. Di che spaccarsi dalle risate. Certo, c'è qualche problema: siamo abituati alla minoranza esigua, alle segrete in stile Nosferatu, a spirali che portano ad altre dimensioni. La luce della ribalta sa quasi di furto e non nascondo che il sospetto sia forte che tanta improvvisa fama avrà un costo. Come Il trono di spade dimostra limpidamente, con buona pace dei fan della versione televisiva 😆 La diffusione pandemica non mi ha mai ispirato una particolare fiducia, ma staremo a vedere.

Stranger Things, cmq, non rientra in queste preoccupazioni. Era un po' che non trovavo una serie così compatta, ben costruita, attenta a dettagli e atmosfere. Direi da True Detective prima stagione. Lo registro con gioia e rabbia, devo ammettere, perché il ritmo, l'articolazione, il crescendo (e in larga misura i temi e i debiti) sono gli stessi del mio povero romanzo in cerca di editore e trovarmeli in tv mi apre il cuore e chiude lo stomaco 😈 di questo passo mi toccherà scrivere a Netflix... Bah, cmq, cos'abbiamo qui? Un mix sapiente di D&D, Tolkien e Stephen King, all'apparenza e anche a buona parte della sostanza; ottimi attori, ottima regia, scelta saggia a favore di un formato poco esigente (8 episodi). Cosa di più? Quello che comincio a sospettare sia il "re clandestino" della fiction di questo periodo tormentato; quello che l'ha descritto e intuito con tanto anticipo da perdere il tram per la fama e restare, quasi fino all'altroieri, uno svitato ininfluente. Salvo ovviamente una pattuglia di estimatori contro tutto e contro tutti, che ancora oggi possono godersi un sapere esoterico, finché qualcuno non si deciderà a denunciare con onestà dove va a prendere le idee e le atmosfere...

Parlo di Howard Phillips Lovecraft, HPL per i suoi fedeli cultisti. Il Maestro di Providence, che per primo ha dato forma - be', più o meno 😄 - alle paure endogene della modernità, allora ancora trionfante e per niente disposta a sentir parlare di debolezze e angosce. In una lettera del 1937, ha scritto una delle più belle descrizioni di BIldung che io abbia letto: "I can better understand the inert blindness & defiant ignorance of the reactionaries from having been one of them. I know how smugly ignorant I was. . . I really had thrown all that haughty, complacent, snobbish, self-centred, intolerant bulls**t, & at a mature age when anybody but a perfect damned fool would have known better! . . . It's hard to have done all one's growing up since 33—but that's a damn sight better than not growing up at all." C'è lui dietro il sottile senso di soffocazione di True Detective, nel Mostro da un'altra dimensione di Stranger Things e dietro alle mille inquietudini che oggi sembrano così normali. Ma oggi è un altro tempo e la fiction, anche se pare tanto spensierata, non smette di sbattercelo in faccia!

venerdì 16 dicembre 2016

lunedì 5 dicembre 2016

Cioran


Da Sillogismi dell'amarezza

- Nell'edificio del pensiero non ho trovato nessuna categoria su cui riposare la fronte. In compenso, quale cuscino è il Caos!

- Vago attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi.

 - Invano l'Occidente cerca per sé una forma di agonia degno del proprio passato.

martedì 24 febbraio 2015

Fringe

Se ne parlava a lezione tempo fa e una mia studentessa mi dice: "Ha visto Fringe, professore? Almeno le prime tre stagioni". E devo ammettere che lungo la quarta e la quinta qualche difficoltà l'ho incontrata. Più che altro, credo, per quel pestifero meccanismo dell'abitudine che si impadronisce di te ogni volta che abbassi la guardia e ti spinge a rifare le stesse cose, a rivedere le stesse cose, a confortare le aspettative più infime ed esserne rassicurato. Allora una serie - che si chiama così proprio per quella ragione - deve continuare ad essere uguale a se stessa, altrimenti che serie è? E invece Fringe sgarra di brutto: cancella personaggi centrali, butta per aria linee temporali, semina indizi apparentemente privi di senso in tutte le stagioni e all'ultima cambia radicalmente tutto, tranne un pugno di personaggi. Non più un investigativo di confine, ma un dramma sulla libertà postapocalittico. Di che battere la capoccia al muro!

Eppure, per una volta, gli sceneggiatori l'hanno azzeccata in pieno. Certo, c'è qualche caduta, qualche filo che resta appeso, ma la quinta e ultima stagione recupera tutte le trame e dona loro senso. E soprattutto esplicita la critica all'iperrazionalismo moderno in modo superbo, senza voler essere didattica e proprio per questo con grande efficacia. Chi sono gli Osservatori, se non gli uomini cartesiani al potere? E cosa fanno nei confronti dell'anomalia che potrebbe annientarli? Di fatto la stagione è - ancor più delle altre - un trattato di filosofia della scienza sotto mentite spoglie, una riflessione sul destino e un ultimo saggio della bravura della gran parte del cast, già da tempo impegnato in doppi ruoli di notevole difficoltà interpretativa, ma stavolta chiamato a reggere un ritmo diverso, dove il focus è sull'interiorità e non sull'azione, su quelle emozioni che gli invasori hanno rimosso definitivamente (almeno credono...) e che invece costituiscono il nocciolo profondo dell'umanità.

Smetto quando voglio

Prima di tutto evviva! Un film italiano divertente e intelligente che non ti fa sbuffare neanche una volta di rabbia, ma piuttosto rotolare in terra dalle risate. Risa amare - e non credo ci sia nessuno più titolato del sottoscritto a dirlo o degli altri che ancora tentano di fare università - ma credo siano proprio quelle che centrano il bersaglio. Che ti inducono a ripensarci e a capire qualcosa di più. Sarebbe il caso che lo vedessero le famose "anime belle" che continuano ad avvelenare gli atenei con le loro pretese di "conformarsi alle richieste del mercato del lavoro"... Il mercato del lavoro cerca quinte elementari, non gente con proprietà di linguaggio o conoscenze scomode; ti obbliga a contemplare la rinuncia ai titoli o la falsificazione del curriculum. Direi che è molto meglio ridere e sperare che qualcuno prima o poi capisca che le risorse dovrebbero servire a cambiare le teste e gli occhiali, non le discipline. Ovviamente da vedere senza ulteriori esitazioni :)

venerdì 19 dicembre 2014

The Wolf of Wall Street - The Counselor

Sembra che il nuovo AD di ENEL abbia dichiarato che è tempo di più industria e meno finanza. Sarebbe da standing ovation, se non fosse già intervenuto un empito di rabbia per il semplice fatto che una frase del genere vada detta e non risulti ovvia da sé. Eppure, in linea con la tendenza dematerializzante dell'occidente moderno, da molto tempo si è scambiata la furberia finanziaria per il nocciolo della questione economica: il magheggio al posto della produzione e qualcuno venga a dirmi che siamo noi italiani gli specialisti del gioco delle tre carte! D'altronde la roulette finanziaria ha tutto ciò che può affascinare un moderno: crea fortune in un batter d'occhio, non ha praticamente a che fare con oggetti materiali ed è invece il trionfo di numeri e algoritmi. C'è un solo problema: la si può definire "lavoro" solo con un salto d'immaginazione di cui la modernità pretende di non esser capace. Be', dopo aver visto The Wolf of Wall Street è piuttosto difficile darle retta, perché cos'altro è la storia vera di Jordan Belfort se non un sogno/allucinazione/incubo che riassume e denuncia le distorsioni e bugie cui un inflessibile corso immaginale ci ha condotto?

Non l'ho fatto apposta, ma il clima - per quanto la cosa non sia evidente - rimane lo stesso. E' un po' come seguire la catena alimentare degli squali o degli sciacalli, per restare nell'immaginario di Cormac McCarthy, grande autore americano contemporaneo responsabile dello script di The Counselor. I signori come quello qui sopra, in giacca, cravatta e cocaina, generano flussi di soldi che hanno il bacino idrogeologico in comune con quelli che arrivano da traffici illeciti di ogni sorta. Ogni tanto i mondi collidono e qualcuno si fa male. Nella fattispecie Michael Fassbender, avvocato che sceglie il momento sbagliato per saltare la barricata una volta per tutte. A proposito di Fassbender, devo ammettere che proprio non riesco a condividere l'entusiasmo di critici e registi per la sua recitazione: in mezzo al cast stellare che vedete qui accanto scompare e non credo sia una scelta di regia. Forse bisognerebbe chiedere a Ridley Scott, che comunque ci consegna un bel film, impegnativo e stimolante come ultimamente accade di rado. Qui, come nel cinema che ha senso, lo spettatore è meno spettatore e più interprete, se non proprio coautore. C'è giusto una caduta alla fine, quando il pistolotto didattico-filosofico dell'avvocato messicano lascia veramente il tempo che trova, ma nel complesso vale decisamente la pena :)

domenica 16 giugno 2013

Dark Shadows

Massì, rimoduliamo :) ultimamente i temi di gran parte della fiction convergono in costellazioni piuttosto coerenti e li ritrovi, più o meno variati, dove non te lo aspetteresti. In Dark Shadows, del buon Tim Burton, i grandi motori, pur nel tributo alla serie televisiva di cui il regista era appassionato, sono di nuovo la famiglia e il discorso sul Male, incarnato tanto per cambiare nel vampiro, figura che va più che per la maggiore. In un certo senso il film costella con tutta la saga di Twilight, salvo che Johnny Depp non sbrilluccica ed Eva Green è uno schianto ;) La cosa comica è che, sempre più spesso, il discorso sulla famiglia prende una piega mediterranea del tutto incoerente con l'universo culturale di riferimento: "la famiglia è tutto", "la famiglia viene prima di tutto" e via improvvisando sono frasi che ti aspetteresti in Gomorra o I Soprano, per come funzionano stereotipi e immaginario moderno condiviso. E invece questo primato risuona in posti inediti. Tra tutti il più improbabile è forse la bocca di quella che dovrebbe essere l'immagine del Male. Bisognerà tentare una lettura immaginale della rivisitazione corrente del vampiro, in effetti. Qualcosa che abbia a che fare con l'eufemizzazione della metà oscura, della quale cominciamo a prendere atto, con le cattive più che con le buone. Con la necessità di venire a patti col mostro che tutti ci portiamo dentro, ma che la nostra cultura non è in grado di vedere o accettare. I cambiamenti di fronte cui si assiste sono, per certi versi, i primi tentativi di superare il chiaro e luminoso uomo razionale di cui Cartesio ci ha fatto dono qualche secolo fa e trovare un modo di rappresentare l'uomo per quello che è, a mezza strada tra angelo e demone.



mercoledì 29 maggio 2013

007 Skyfall

Benvenuti nel XXI secolo. Pare che i cicli del brave new world stiano accelerando e così ci troviamo di nuovo in una situazione critica, ma tristemente sprovvisti dell'entusiasmo che in altri tempi la rendeva desiderabile e stimolante. E non è una prerogativa del nostro eroe preferito, quello che probabilmente incarna in modo emblematico la sicurezza moderna in sé e nel proprio braccio tecnologico. Vengo da una lunga serie di attacchi al cuore delle istituzioni: Homeland si chiude, per questa stagione, con un attentato devastante al centro operativo della CIA; NCIS vede esplodere il quartier generale; Skyfall, a parte il titolo che è tutto un programma, vede violato il santuario del MI6. Direte, è normale, una volta trovato un colpo di scena che funziona ecco che tutti si affrettano a replicarlo. Vi dirò, può anche darsi, ma il fatto rilevante è a monte: è il primo che è riuscito a immaginarlo come colpo di scena accettabile, verosimile, presentabile. E' il primo che ha superato il freno simbolico e così ha dato voce all'inquietudine diffusa che quest'incantesimo a contrario cerca di scongiurare. E pian piano la litania sale negli ambiti più diversi, a sancire un tempo dove non c'è più nulla di inviolabile e rassicurante. Non lo definirei neanche più tempo dell'incertezza. L'incertezza ha un margine sul quale si vive, che può anche diventare accogliente, con i dovuti aggiustamenti. Qui siamo nell'apocalisse, nella certezza opposta della caduta. E quando è il cielo a cadere, come ben sapevano i Celti, si ha paura.

Il paradigma si sgretola, gli argini cedono, c'è un bisogno religioso di eroi e 007 non si
sottrae. Torna direttamente dalla tomba e non mi pare cosa da poco. Quando il cattivo di turno, un incredibile Javier Bardém, gli chiede qual è il suo hobby, lui risponde serafico "La resurrezione". Di nuovo, nessuno si illuda che si tratti solo di una battuta a effetto: la lingua è molto più intelligente di noi e noi stessi lo siamo molto più di quanto non pensiamo. Se qualcuno ancora crede che una frase, un'immagine, un oggetto abbiano un solo senso e non a caso sia quello più evidente o legato alle dinamiche dell'economia e del successo, quel qualcuno vive veramente ancora nel XX secolo e nel suo letale equivoco razionalistico. E' decisamente tempo di riconoscere che c'è molto di più in cielo e in terra che non le ovvietà con cui fingiamo spesso di ragionare e spiegare il mondo. E Skyfall è decisamente un bell'esercizio per rendersene conto. Nonostante gli Oscar e gli incassi :)

domenica 12 maggio 2013

Anonymous - Ironman III

Come diceva Colli, c'è un tempo per vivere e un tempo per scrivere. Siccome, tra l'altro, scrivere non è facile, non è rilassante, non è la cosa più naturale del mondo come sembrano ritenere in molti, a volte ci si occupa a vivere tralasciando la seconda attività. E ci si trova con qualche film di ritardo :) Niente di che, ma il sempiterno senso del dovere (persino verso un blog sigh) spinge a rimettersi in paro. E' comunque vero che un po' di tempo è utile per trovare le tracce giuste da seguire, più che utile necessario oserei dire, e che così si scorgono prospettive non proprio immediate. Anonymous, ad esempio, è un film molto godibile, ma lasciato decantare offre spunti stimolanti. Da una parte un affondo vellutato alle pretese di esaustività che il nostro sapere accampa senza sosta, ormai quasi soltanto in forma di wishful thinking per il futuro, ma che comunque continuano a nutrire aspettative difficili da gestire al momento della smentita: ancora oggi, dopo tanto tempo, non sappiamo chi fosse Shakespeare, una delle voci più pure e meravigliose della letteratura mondiale. Ancora oggi, quando ne facciamo il nome, ci riferiamo a non si sa chi, eppure lo sanno in pochi e in meno ci fanno caso. Come accade, disgraziatamente, con la gran parte delle parole che di solito si adoperano. Illusi, boriosi e ignoranti, molto spesso... Ottime basi su cui costruire le nostre certezze. Perché meravigliarsi se poi si sgretolano? Su un versante più squisitamente sociologico - come dicono quelli che se ne intendono :) - è interessante invece considerare come vari la stima sociale verso certe attività, come i diversi status richiedano, in epoche e culture diverse, sacrifici, esclusioni e compromessi, attagliandosi alla meno peggio alla gran parte dei loro occupanti. E' quando capita ciò che il film adombra che i nodi vengono al pettine e il rapporto tensivo tra sociale e oltre dal sociale (ah, Simmel :D) si rivela inadatto, inutilmente riduttivo. E' quando il demone si presenta nel suo splendore che ogni discorso di medietà, adattamento e convenzione perde di senso. Bisognerebbe rifletterci con più attenzione e meno pigrizia mentale, se vivessimo in una cultura che si interessa ancora del benessere dei suoi membri. Ed è comunque buffo e doloroso pensare - se la tesi del film è vera - al presente, in cui scrivono cani e porci, e al tempo del Bardo, quando per riuscire a dar voce all'arte ci si doveva nascondere dietro lestofanti e mascherate, mettendo a rischio vita e ricchezze. Chissà se c'è una qualche relazione tra il costo di ciò che si scrive e la sua qualità...





Altro giro, altri regali. Terzo episodio della saga di Ironman, uno degli eroi più immaginalmente interessanti del periodo, dove il buon Tony Stark - il perfetto Robert Downey Jr - sconta le conseguenze dell'ultima avventura degli Avengers, accennando per una volta ai costi del confronto con l'inconcepibile, tema centrale per esempio in Lovecraft. Effetti speciali da centinaia di specialisti, ritmo a dir poco serrato, parecchia (auto)ironia e un buon modo per fare i conti col tema/problema della tecnologia e di quello che può derivarne. Di fatto Ironman è questo, il contraddittoriale attraverso cui la nostra cultura cerca di capirsi un po' meglio, di immaginare quali esiti potrebbero presentarsi alla corsa spesso insensata verso un progresso senza se e senza ma. Epperò non è questo che mi intriga ora: è piuttosto l'ennesimo segno del tempo, nascosto nell'iterazione. Si dice da più parti che i sequel non sono altro che il mezzo scelto da Hollywood per far soldi senza grossi rischi, alla faccia della mitologia dell'imprenditore e del suo agire d'azzardo. Sarà anche vero, per carità, ma secondo me c'è di più. C'è una forma di inganno che ci consente di evitare lo stigma sulla routine venuto con la modernità, l'orrore della ripetizione che invece ha sempre giocato un ruolo centrale nelle storie umane. Prima le avventure degli eroi erano quelle, emblematiche, iscritte in un tempo/non tempo, il tempo sacro dell'altrove. E narrarle portava lì, astraeva dalla realtà quotidiana e rinsaldava la circolarità della vita, una delle migliori strategie contro l'angoscia del tempo che scorre. Oggi nessuno vorrebbe riascoltare consapevolmente la stessa storia, ma tutti ne hanno bisogno e le nuove puntate salvano come sempre capra e cavoli: sembrano nuove, ma sono lo stesso racconto. E' qui il fascino del serial, un'altra derivazione paretiana che ci permette di aggirare uno dei tanti divieti che ci siamo imposti senza pensare, sull'onda di un altro fascino e di un'altra illusione.

venerdì 1 marzo 2013

Hysteria

Posso dirlo, non l'avrei mai immaginato :) Avevo visto il trailer, ma pensavo di aver frainteso. Non che si trattasse dell'invenzione del vibratore nel vero, reale senso del termine, né che la nostra briosa cultura avesse messo a punto procedure specifiche per il trattamento di una "malattia" che altro non era se non il frutto della rimozione radicale della nostra parte animale, nello specifico la parte femminile che da millenni terrorizza noi maschietti a livelli patologici. E invece... Parliamo proprio di questo, di una delle più raffinate strategie del paradigma scientifico-tecnologico - e medico, aggiungerei, anche se mi viene il dubbio che forse gli aggettivi andrebbero redistribuiti - per difendere la sua visione del mondo. Una visione parziale, distorta, allucinata che solo secoli di pratica sono riusciti a trasformare in senso comune e che le diverse figure irriducibili scontano, alla fine dell'Ottocento come oggi. Già, perché il motivo per cui hanno girato questa piacevole commedia - che ha anche il pregio di far ridere, incredibile ma vero! - non è tanto raccontarci quanto i nostri antenati temessero il piacere femminile; piuttosto mostrare come, dietro il velo del discorso scientifico, si nascondano pregiudizi, paure e interessi dei quali spesso neanche i vari paladini sono consapevoli. Spesso, ma non sempre. La definizione della "malattia" è interna al sistema; sovente ha dei motivi, un'utilità, una capacità di cura; a volte risponde ad altro: l'equilibrio del sistema stesso, la difesa delle sue allucinazioni o dei suoi pilastri (che capitano essere, sempre a volte, la stessa cosa), la distribuzione del potere nel suo seno. Ieri era l'isteria, oggi forse la sindrome da deficit d'attenzione o le difficoltà a socializzare o qualche forma di pazzia più adatta di altre per risolvere anomalie o mascherare verità scomode. Sì, con Hysteria si ride, ma è opportuno pensarci sopra, dopo.

domenica 17 febbraio 2013

Hugo Cabret


Mica una cosa facile. Un film che è un sacco di cose tutte insieme e che all'inizio finge di essere qualcosa che non è. Inizio non particolarmente azzeccato, tra l'altro, e stavolta non so se per una scelta di ritmo narrativo o per errore. Comunque, cos'è Hugo Cabret? Una fiaba, un atto d'amore verso il cinema, un messaggio tra le righe, un testo di riflessione immaginale. Questo e altro, contemporaneamente. Proprio ieri sera davo atto a un vecchio amico di aver intuito la potenza di questa parola molto prima di me; parola immensa, soprattutto per chi si ostina a restare chiuso nella logica discorsiva sequenziale. Penseremo pure in sequenza - e se ne potrebbe discutere - ma certo viviamo in sincronia: processi fisiologici, mentali, simbolici si intrecciano e si allontanano, avvengono senza cura per le nostre capacità analitiche o di comprensione. Aprire gli occhi a questa "semplice" constatazione è forse il primo passo verso la saggezza. Così, Hugo Cabret è questo sciame di significati, uno dei quali in particolare mi è piaciuto: l'incontro poetico tra meccanica e sogni, tra la rassicurazione esistenziale della struttura ("se tutto è connesso e ha un senso, allora anch'io ce l'ho") e il suo utilizzo non utilitaristico; il piegarsi delle due dimensioni principali dell'essere umano - homo sapiens e demens - l'una verso l'altra in un abbraccio disarmato è quello che mi augurerei per il prossimo secolo, non tanto per me che qualche passo l'ho già fatto, ma per questo povero mondo.

lunedì 11 febbraio 2013

The Following

Povero Poe! O forse mi sbaglio e sarebbe lusingato da tanta attenzione, anche se piuttosto malata. Comunque l'immaginario del tempo è pieno di uomini neri dalle connotazioni più diverse: non morti brutti (zombie) anche se ultimamente perfino amabili; non morti fichissimi (vampiri, in Twilight addirittura scintillini :) e ne so qualcosa; incroci assortiti tra uomo e bestia (mannari di ogni forma ed estrazione); e infine uomini cattivi d'ogni risma. E' piuttosto evidente che l'evacuazione del male da parte della razionalità sta facendo fare gli straordinari a tutto il resto, con risultati interessanti e preoccupanti al tempo stesso. Che i creatori di trame abbiano intuito il fascino del tema non significa che il suo sfruttamento onnipresente abbia solo a che fare con gli incassi, come ci raccontiamo spesso; vuol dire piuttosto che c'è un vuoto vasto e spaventoso, un abisso al cuore della modernità, che qualcuno o qualcosa deve riempire. Da questo punto di vista The Following - che parte ufficialmente domani, per cui per una volta sono in anticipo, roba da veri giornalisti lol - opera su diversi piani. Offre una variante originale - e non è facile! - dell'inflazionata figura del serial killer, uomo nero per eccellenza e manco a dirlo oggetto di fanatismi incomprensibili ai più, andando a esplorare proprio questo fascinum, antico termine latino dai significati oscuri e numinosi: l'attrazione malata, come dice la nostra cultura che di malattie se ne intende, per figure carismatiche ed eccentriche, che a volte sconfina nel culto. "Non usiamo quella parola," dice un'agente dell'FBI, rivelando la strategia principe che si usa da qualche decennio a questa parte: se non lo dico, non lo nomino, non esiste. A farci caso era esattamente la strategia che doveva tenere a bada Voldemort e guardate com'è andata! L'argomentazione che segue è però lucida: se la gente è vuota, occorre qualcuno che sappia riempirla, di sogni, emozioni, brividi e siccome, a forza di stigmatizzarle, tutte queste cose vengono percepite come malvagie non possono che essere appannaggio dei feroci, degli assassini, degli uomini neri. Non c'è che dire, proprio un bel risultato...


Una sola chiosa, en passant: gli uomini vuoti non ci diventano per caso e non basta solo l'evacuazione di tutto ciò che non è razionale; occorre anche una disattenzione lunga e dolorosa per l'intero versante interiore, la trasformazione della cultura in una serva dell'economia, nel lavoro come nel marketing, l'abiura all'umanità come tratto programmatico di una visione del mondo. Orsù, continuiamo a preoccuparci di affari e finanza, gli uomini neri hanno quasi vinto.

lunedì 4 febbraio 2013

Last Resort

Spezzerò una lancia per Last Resort nella convinzione che si tratti di una serie one-shot, specie rara della quale sento la mancanza :) Mi rendo conto che l'idea stessa di serial è contraria a questo mio desiderio, perlomeno a uno sguardo superficiale e tanto per cambiare economico: cosa di meglio dal punto di vista della produzione di una narrazione che riesce a proseguire e farsi vendere per n stagioni, sostituendo pian piano (a volte neanche tanto piano) l'innovazione o addirittura la sperimentazione con la sana routine? Una routine, va detto, rassicurante sia per il fruitore che per il venditore, che inizia presto o tardi la combinatoria dei rapporti amorosi e una serie di colpi di scena prevedibili, sperimentati e capaci di soddisfare i più, i quali per l'appunto proprio quello andavano cercando: una storia nota sotto mentite spoglie, un altro modo per confermare il noto e fugare l'ignoto.





Però una serie può essere anche altro. Può essere narrazione di una storia che non si riesce a chiudere nell'arco breve di un film, strumento per tratteggiare personaggi di un certo spessore, indulgere in rimandi colti e divertiti capaci di rievocare un intero clima culturale - come nell'altro cult qui accanto, Life on Mars, che ricordo sempre con grande piacere e presto rivedrò - e soprattutto riascolterò! Può essere segno di un coraggio di cui si sente la mancanza: in minore, nella capacità di non tirare troppo la corda e rinunciare a possibili guadagni futuri in nome della coerenza di un racconto o di un'idea; in maggiore, nella creazione di personaggi di cui personalmente comincio a sentire la mancanza: personaggi forti, decisi, eroici nel giusto senso del termine. E' paradossale, ma una cultura dell'aut/aut, del bianco e nero in tutto, chiede al suo versante immaginale di supplire alle sue mancanze di raffinatezza e profondità e trasforma i suoi eroi in figure deboli, indecise, combattute - come sono d'altronde la gran parte dei suoi abitanti, fiaccati dalla costante erosione del carattere e dello spessore etico e morale.



Così non c'è neanche più salvezza nell'immaginazione. Anche lì troviamo gli stessi patetici uomini piccoli che ci circondano, incapaci di farsi carico del loro dono o del loro destino, pronti a vendersi per pochi denari e a volte, nei casi migliori, di avere il buon gusto di provarne vergogna. Non è questo che dovrebbero essere gli eroi. E non a caso il comandante Chaplin - un notevole Andre Braugher - non è affatto così: sa bene dov'è il giusto e dove lo sbagliato e si comporta di conseguenza, senza cedimenti e pagando il prezzo adeguato. Dice molto di una cultura che gli unici a comportarsi in modo degno siano un pugno di personaggi di fiction...

domenica 13 gennaio 2013

L'atlante delle nuvole

L'avevo detto che oggi avrei battuto un colpo per il versante più "sofisticato" del cinema. E così è stato. Cloud Atlas è un bel rientro, in special modo in matinée alle 11 :) Tanto per cambiare, il mio essere un tantino inattuale non mi ha fatto prendere coscienza in anticipo del dibattito innescato dal film, di cui trovate qui un buon riepilogo. Così non mi sono posto - come sempre d'altronde - domande sul botteghino, la ricezione del pubblico e le doti più specificamente filmiche della cosa. L'ho guardato in modo il più possibile im-mediato e devo dire che mi è piaciuto assai. Anzi, devo dire che quando esco da incontri di questo genere mi sento meno solo :) A essere proprio sincero, mi sono anche un tantino commosso, perché trovare la materia su cui rifletto e scrivo da anni, che cerco di insegnare e proporre alla critica soggettiva più ampia, fatta film è piacevole, dà un po' il senso di un sentiero che vale la pena di percorrere. E' vero, ormai la frase "Tutto è connesso" è perfino inflazionata. Se ripenso a Jurassic Park o a Dirk Gently agenzia investigativa olistica del compianto e geniale Douglas Adams, vedo le prime prese di coscienza visionarie, ma la domanda è: questa inflazione è dovuta solo a una moda oppure segnala un movimento profondo dell'immaginario? Come dicevo ieri, la narrazione di questo tempo è sempre meno coerente col regime diurno della modernità, sempre più sensibile e attenta alla relazione. Credo che Simmel si sarebbe commosso anche lui vedendolo, perché la sua Wechselwirkung è oggi racconto più o meno condiviso, interferenza continua tra scienza, pensiero orientale, arte e perfino industria cinematografica. E Durand non avrebbe potuto non notare che qui siamo in pieno notturno, nella confusione delle linee temporali - uno dei tabù più consolidati della nostra cultura - dei generi narrativi e sessuali, della coerenza narrativa che si emancipa dalla linearità del Logos per tentare di dire altro. Una sensazione, un'intuizione ancora informe, ma che viene precisandosi passo passo. Questo ritengo sia importante, al di là delle difficoltà o meno della trama, delle fulminazioni più o meno felici - bellissima l'idea dell'Unanimità e il refrain dell'Ordine, in piena critica dello strutturalismo razionale. Imho film e libri di questo genere annunciano un altro futuro possibile, per la nostra cultura e per la Terra.

sabato 12 gennaio 2013

I mercenari

Sì, è vero, non sto guardando film propriamente da intellettuale in questo periodo, anche se domattina dovrei riprendere la retta via :) E' anche vero, però, che a voler investigare i movimenti dell'immaginale troppa riflessione non serve: ci sono logiche che sfuggono alla logica e mettere un discorso in immagini può far pagare alle immagini un caro prezzo. Non che qui non ci siano altre logiche in gioco, per carità: spettacolo e botteghino riescono a essere anch'essi piuttosto fuorvianti, ma in un certo senso li trovo più malleabili, permeabili forse. E qui, in The Expendables, accade qualcosa di strano: Mickey Rourke in un raro momento di introspezione disegna il ritratto dell'uomo moderno, più che del mercenario stagionato: "nella mia testa è tutto buio, come Dracula"... Morte emozionale, morte valoriale, un volto imprevisto per gli "uomini vuoti" di Eliot in un contesto dei meno probabili. E non solo: una compagnia di macchine da guerra incallite che affronta un esercito e devasta fino alle fondamenta un'isola immaginaria del golfo caraibico per... amicizia, amore, ideali? Roba da matti! Slittamenti consapevoli o no, pochi testi dicono il tramonto dell'economicismo meglio di questa pellicola all-stars diretta da Rambo che mischia temi, ritmi e cliché con intuito notevole. Come se l'età che avanza liberasse da schemi soffocanti. Tra infanzia e vecchiaia ci sono molte più affinità di quanto non sembri.