martedì 24 febbraio 2015

Fringe

Se ne parlava a lezione tempo fa e una mia studentessa mi dice: "Ha visto Fringe, professore? Almeno le prime tre stagioni". E devo ammettere che lungo la quarta e la quinta qualche difficoltà l'ho incontrata. Più che altro, credo, per quel pestifero meccanismo dell'abitudine che si impadronisce di te ogni volta che abbassi la guardia e ti spinge a rifare le stesse cose, a rivedere le stesse cose, a confortare le aspettative più infime ed esserne rassicurato. Allora una serie - che si chiama così proprio per quella ragione - deve continuare ad essere uguale a se stessa, altrimenti che serie è? E invece Fringe sgarra di brutto: cancella personaggi centrali, butta per aria linee temporali, semina indizi apparentemente privi di senso in tutte le stagioni e all'ultima cambia radicalmente tutto, tranne un pugno di personaggi. Non più un investigativo di confine, ma un dramma sulla libertà postapocalittico. Di che battere la capoccia al muro!

Eppure, per una volta, gli sceneggiatori l'hanno azzeccata in pieno. Certo, c'è qualche caduta, qualche filo che resta appeso, ma la quinta e ultima stagione recupera tutte le trame e dona loro senso. E soprattutto esplicita la critica all'iperrazionalismo moderno in modo superbo, senza voler essere didattica e proprio per questo con grande efficacia. Chi sono gli Osservatori, se non gli uomini cartesiani al potere? E cosa fanno nei confronti dell'anomalia che potrebbe annientarli? Di fatto la stagione è - ancor più delle altre - un trattato di filosofia della scienza sotto mentite spoglie, una riflessione sul destino e un ultimo saggio della bravura della gran parte del cast, già da tempo impegnato in doppi ruoli di notevole difficoltà interpretativa, ma stavolta chiamato a reggere un ritmo diverso, dove il focus è sull'interiorità e non sull'azione, su quelle emozioni che gli invasori hanno rimosso definitivamente (almeno credono...) e che invece costituiscono il nocciolo profondo dell'umanità.

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