giovedì 28 dicembre 2006

Al Stewart - The Year of the CatL'anno scorre via, tanto per cambiare. Stavolta i giorni natalizi sono stati dedicati a un ampio restyling del pc, filato via quasi incredibilmente liscio, sull'onda del quale ho rimesso le mani sui miei archivi analogici, riprendendo vecchi dischi e vecchie cassette E ho scoperto di non avere alcuna versione digitale di questo gioiello del 1976. Che sia un segno? Inaugurerò la mia nuova trappola per la cattura digitale con la mia vetusta copia in vinile? Non sarebbe una cattiva idea! Nella title track, di cui propongo il testo, c'è la più bella serie di assoli che io ricordi: chitarra classica, elettrica e sax, per quel curioso effetto di elevazione che solo certa musica sa dare portato quasi a livello di decollo... Che dire d'altro? Che è uno di quei pezzi che, come la madeleine di Proust, mi riporta di colpo a momenti lontani, con la luce, il tepore, le aspettative delle estati di quando hai 14 anni e tutto in attesa davanti a te. Uno di quei dischi engrammati nella carne.

On a morning from a Bogart movie
In a country where they turn back time
You go strolling through the crowd like Peter Lorre
Contemplating a crime
She comes out of the sun in a silk dress running
Like a watercolor in the rain
Don't bother asking for explanations
She'll just tell you that she came
In the year of the cat

She doesn't give you time for questions
As she locks up your arms in hers
And you follow 'till your sense of which direction
Completely disappears
By the blue tiled walls near the market stalls
There's a hidden door she leads you to
These days, she says, I feel my life
Just like a river running through
The year of the cat

Well, she looks at you so coolly
And her eyes shine like the moon in the sea
She comes in incense and patchouli
So you take her, to find what's waiting inside
The year of the cat

Well morning comes and you're still with her
And the bus and the tourists are gone
And you've thrown away your choice and lost your ticket
So you have to stay on
But the drumbeat strains of the night remain
In the rhythm of the new-born day
You know sometime you're bound to leave her
But for now you're going to stay
In the year of the cat
Al Stewart in tour

martedì 26 dicembre 2006

Romeo + GiuliettaEppure stavolta mi era quasi sembrato che... Invece niente, tutto uguale, nessun colpo di scena in compenso una versione di grande impatto visuale, che mi conferma nel giudicare Baz Luhrmann uno dei pochi pazzi visionari di genio rimasti in circolazione, e di grandissimo ritmo. Personaggi ossimorici, dove i versi del Sommo Poeta () si sposano con look del tutto improponibili, come nel buon Mercuzio, nel ruolo del quale Harold Perrineau si riscatta ex ante della parte insopportabile che recita in Lost: ragazzi, è veramente uno spettacolo! Mises allucinanti e versi quasi scandalosi da quanto sono immortali, come il celeberrimo "Romeo, Romeo" della scena del balcone trapiantata a Verona (Venice) Beach, nella cornice di un patio pacchiano con piscina, o il dibattito sull'amore tra Leo (oramai siamo amici *grin*) e suo cugino con i capelli arancioni. E poi le armi: per quanto onnipresenti, basta dare loro uno sguardo, ai dettagli dell'ornamento, ai nomi amorevolmente incisi, per capire quanto anche una maledetta pistola possa essere tante cose - pensare a Tarantino per capirci. Guardandolo ridevo da solo e pensavo "adorabilmente barocco" e alla fine, sulla ripresa dall'alto degli amanti suicidati, me ne sono convinto definitivamente: stuoli di candele, croci mortuarie in neon azzurro e un catafalco di stoffe e pizzi da Madonna di Pompei: credo proprio che oggi gli esteti barocchi ragionerebbero così e che il kitsch, a volte, sia un concetto superato. Solo a volte, purtroppo.

mercoledì 20 dicembre 2006

Il momento di uccidereDi tanto in tanto scopri che ti sei perso delle cose piuttosto interessanti e ci inciampi come se niente fosse, una sera particolarmente priva di energie e impegni Il momento di uccidere ha parecchi pregi: la regia, di Joel Schumacher, incalzante ma ottimamente scandita, con momenti di tregua e accelerazioni da brivido; un cast stellare ben miscelato, che non genera conflitti e disarmonie - citerò solo i Sutherland padre e figlio per affetto e timore di Jack Bauer e la bella Sandra Bullock; la trama, tratta dal romanzo omonimo di John Grisham (così Eleonora non mi cazzia di nuovo *grin*). Tra l'altro, offre spunti di riflessione su razzismo e dialettiche interrazziali molto interessanti e drammatizzati con classe ed efficacia. L'unico motivo per cui non sono sicuro di usarlo per il cineforum dell'anno prossimo è la durata: due ore e mezza! La classe media di oggi schiatta molto prima

domenica 17 dicembre 2006

Apprezzare [la ricerca dell’inutile], darle un valore, è difficile, perché perfino la conoscenza rientra oggi in una logica politico-economica. Per tutta la filosofia progressista del XIX secolo, “sapere è potere”. Il pensiero non vale più per se stesso, ma viene messo in rapporto a un fine che gli è estraneo: il potere sulle persone (politica) e sulle cose (economia). Si ritrova in questo il fondamento dei grandi sistemi elaborati nella modernità, marxismo, freudismo, positivismo, che vogliono, in ultima analisi, legittimare l’azione che si può esercitare su se stessi: l’economia dell’io (freudismo), o sul contesto sociale: l’economia del mondo (marxismo, positivismo). In ognuno di questi casi, “potere” o “fare” è l’extrema ratio del pensiero. E non c’è che da vedere l’ossessione della professionalizzazione a tutti i livelli dell’educazione, università compresa, per rendersi conto del cammino percorso dall’ideologia, la cancrena – diranno alcuni – dell’utilitarismo. Non dimentichiamolo, nella tradizione antica la scholè era “l’ozio studioso”, l’otium senza utilità immediata, contrapposto al negotium che era, lui, proprio dell’azione servile.

M. Maffesoli, La transfiguration du politique. La tribalisation du monde postmoderne, Paris, La Table Ronde, 2002, p. 170.

sabato 16 dicembre 2006

The InterpreterMi chiedo spesso perché un film è un bel film. Ci sono un sacco di motivi, senza dubbio: la qualità della regia, l'arte degli interpreti, la trama, la fotografia e molti altri, e la qualità generale del mélange che ne risulta. Questo, perlomeno, è quello che direbbe - almeno credo - una critica razionale e ragionevole. Ci aggiungerei però qualche altra ragione: una, molto poco razionale, è quella del particolare momento di grazia di qualcuno dei partecipanti all'impresa, quella volta in cui si è più di se stessi, quasi che il demone ci stesse mettendo mano in prima persona, e ogni scelta porta alla possibilità migliore e la qualità di ciò che si fa è palpabile, forse meglio evidente; un'altra, questa estremamente soggettiva, è il particolare accordo tra l'universo interiore dello spettatore e il film, che non dev'essere intellettuale o consapevole, ma ti fa pensare che quella che stai guardando è proprio la pellicola giusta per la serata (che arcaismi eh, pellicola ) e ti senti muoverti in armonia, piangendo quando c'è da piangere, ridendo quando c'è da ridere, seguendo la marea; l'ultima, che a questo film e a questa visione si adatta meglio delle altre - senza nulla voler togliere alle diverse bravure coinvolte - è la presenza di un sottotesto, metatesto o come volete e il piacere intellettuale della sua scoperta e della scoperta che è anch'esso armonico ai propri pensieri. Questa particolare ragioneDesktop di The Interpreter può essere solo soggettiva o anche oggettiva, laddove si scopra che il regista aveva veramente pensato a quel tema in filigrana. Ora non ho controllato, ma sono soddisfatto comunque. Al di là della questione evidente, dei genocidi e dei diritti umani calpestati, della vita degna che a molti - troppi - non spetta, The Interpreter mi è sembrato un film sul perdono, argomento sul quale si versano di questi tempi galloni di melassa, declinandolo quasi esclusivamente nei termini dell'obbligatorietà di concederlo non si sa per quale ragione (quella implicita è il "porgi l'altra guancia"). Questi termini mi danno l'orticaria. Il metatesto del film è molto più sottile: con la scusa della fantomatica nazione africana propone un'idea che è solo apparentemente simile alla nostra versione, perché l'atto del perdono non ha nulla a che fare con la bontà o la statura morale di chi ha subito il torto - e parliamo di assassini - ma con la saggia constatazione della sua necessità per il mantenimento di un equilibrio esistenziale e la possibilità di un ritorno alla vita. Perdonare è lasciar andare, accettare l'assenza di giustizia, qualcosa che va molto al di là del colpevole. Sean Penn lo capisce - a velocità da record, bisognaSean Penn ammettere *grin* - e Nicole Kidman sembra dimenticarlo. E c'è qualcos'altro, una scena che può sembrare retorica, ma in quest'ottica assume un senso molto bello: è lo smarrimento del dittatore costretto a confrontarsi con le sue parole di quand'era ancora un idealista, prima di cedere all'affarismo e alla tentazione del genocidio. È come vedere il Krapp di Beckett che rivede un se stesso di anni prima, lo trova bello e ciononostante non lo riconosce più... Può anche pentirsene, ma chi dovrebbe lasciar andare, in questo caso? Credo che l'attimo del confronto generi una tensione perenne, la coscienza del bivio sbagliato cui non si può tornare e un giudizio su di sé al quale non c'è perdono da opporre.

giovedì 14 dicembre 2006

I giochi dei grandiProbabilmente se avessero tradotto qualcosa di simile al titolo originale, We Don't Live Here Anymore, avrei intuito che non era un film leggero, prima di vedere le 4 stelle della recensione e decidere che poteva essere la soluzione adatta per una serata dopo il ritorno da Teramo alle sette e mezza e un convegno e mezzo da ieri. Ma l'hanno chiamato, apposta, I giochi dei grandi, che fa più commedia che storia del disfacimento di una o due famiglie, a seconda di come vogliamo interpretare la conclusione, ed ecco qua. Un bel film, sebbene piuttosto di maniera; uomini che lasciano il tempo che trovano, casalinghe più o meno disperate, rapporti sentimentali-amorosi complicati e struggenti. Soprattutto nessuna traccia di gioco, sebbene sia una battuta che nel film ricorre. E che tutto sommato credo fornisca una possibile chiave ironica di lettura, con cui si registra sconsolatamente la terribile impossibilità di leggerezza e spensieratezza che opprime la gran parte delle relazioni.

domenica 10 dicembre 2006

Kiefer Sutherland aka Jack Bauer
Beh, che dire! Alla fine ci arrivo, visto che ho ricontrollato e non ho trovato tracce di 24 nel blog, cosa comprensibile visto che eravamo orfani di Jack Bauer da prima che cominciasse e che in effetti la terza serie con cui ci eravamo lasciati non era stata la migliore. Ci arrivo e ci arrivo stranito, come accade spesso lungo le ore che scandiscono le giornate più lunghe della sua vita. La cagione è di norma l'insolito affollarsi di imbecilli "al posto sbagliato nel momento sbagliato", in quei posti dove ti aspetteresti di veder rifulgere la potenza e l'efficacia della nazione leader del mondo. Bah Non credo di dover dire di che si tratta: una delle migliori serie che la storia della TV ricordi, al momento della prima uscita ciò che si dice "innovativo". Il problema, come sempre, è riuscire ad essere all'altezza anche dopo. Le prime due stagioni sono andate bene, la terza era talmente zeppa di tutto da essere ridicola. Questa... Checché ne dica il buon Dorax, dal punto di vista della scrittura, secondo me è un netto migioramento sulla precedente, anche se in effetti il piano dei cattivi è un po' troppo arzigogolato per essere vero e, soprattutto, si basa su coincidenze secondo me imprevedibili. Anyway, quello che colpisce è lo spostarsi della complicazione dalla trama esteriore ai rapporti interpersonali, cosa che dovrebbe solleticare le mie capacità predittive, se non fosse che - essendo gli scrittori americani (e sadici, bisogna ammettere!) - il loro maneggiare le relazioni tra persone è un tantino grossolano e diventa snervante. Ecchediamine!!! Siamo nel CTU, l'unità scelta antiterrorismo, abbiamo davanti la peggior emergenza nucleare immaginabile e tutti litigano con tutti, per le ragioni più stupide e inopportune del mondo? Gelosie sentimentali e professionali, stupori ipocriti e ribaltamenti di rapporti consolidati, ubbie etiche da dare le capocciate al muro e in mezzo lui, l'eroe tragico del XXI secolo, l'unico apparentemente in grado di ricordarsi la distinzione tra persona e ruolo e comportarsi di conseguenza, pagandole tutte - le conseguenze, dico *sigh* - fino alla fine. Certo, siamo di fronte alla personificazione del fine che giustifica i mezzi, ma siamo anche in quattro giorni in cui non c'è norma che tenga, i prezzi da pagare per osservare i protocolli sono semplicemente troppo alti e qualcuno deve farsi carico di scelte parecchio scomode. Non so quanta simpatia Jack Bauer incontri sul Web (certo, ci sono siti esilaranti) perché, sebbene possa "rompere chiunque e qualsiasi cosa, ma romperà prima il protocollo", è e resta un uomo delle istituzioni, quello che va vicino alle lacrime quando abbattono l'Air Force One, non quando gli muore la moglie o la nuova fidanzata lo schiaffeggia urlandogli in faccia il suo odio (altro fenomeno, quella ). Quello che gli tocca tutto sommato gli sta bene, perché sarà pure sovrumano, ma dover dipendere da uno come lui secca parecchio *grin*
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venerdì 8 dicembre 2006

I figli degli uominiSono finalmente riuscito ad accogliere il suggerimento di Irene/Zora e sono andato a vedere I figli degli uomini. Caso ha voluto che a pranzo ne leggessi anche una recensione su Film.TV, rivista cartacea e non, che mi ha permesso di apprezzarne anche alcune caratteristiche tecniche che forse mi sarebbero altrimenti sfuggite, in particolare il bellissimo, lunghissimo e difficoltosissimo (da girare per tutti) piano-sequenza che segue Clive Owen nella sua ricerca della giovane madre con figlia nel campo profughi. Direi, per cominciare, che ringrazio Irene per lo sprone e constato che la serie fortunata continua Tema molto particolare, affrontato con strumenti chirurgici da Alfonso Cuaròn, che usa dello stereotipo del futuro orribile con misura ed un realismo inquietante, affidandosi a interpreti notevoli: vorrei ricordare in particolare il sessantottino attempato Michael Caine, in un ruolo minore ma reso con intensità commovente. Il tutto condito da una colonna sonora da lacrime, in cui troneggia In The Court Of The Crimson King dei King Crimson.Michael Caine in I figli degli uomini
Il film, oltre ad essere bello, offre una miriade di spunti di riflessione, dei quali vorrei seguirne in particolare due. Il primo ha a che fare con la crescente schizofrenia della nostra cultura, a tutt'oggi irretita nell'adorazione del Progresso eppure incapace di una qualsiasi coerenza al momento in cui è l'immaginazione a dover dirigere le danze. Da Blade Runner, passando per la saga di Matrix, le conseguenze delle scelte attuali sono state esplicitate e stigmatizzate senza pietà e senza alcuna adesione ai proclami trionfalistici di coloro che insistono che saranno la tecnologia e l'intelligenza umana a cavarci d'impaccio. Difficile in effetti immaginare come, visto che ne sono le prime responsabili... A questo si aggiunge, questa volta, una variante originale nella figura dell'infertilità che ha colpito tutte le donne del pianeta, condannando la specie umana all'estinzione. Sebbene nessuno avanzi l'ipotesi, si può pensare - con Matrix - che è solo la misura estrema del pianeta a sua protezione contro un ospite dissennato e virale quale possiamo considerarci. Come dicevo, però, e questo va a merito della regia e della scrittura, è un motivo che resta in filigrana e acquista così l'efficacia incombente dello spettro. Mentre lo spunto iniziale si snoda attraverso mille difficoltà, risuonando di echi religiosi nell'accento ripetuto sul miracolo in occasione della gravidanza di una giovane prostituta di colore, anch'essi lievi sebbene fortemente evocativi.I flgli degli uomini
E questo miracolo della nascita che riesce ad imporsi anche agli uomini ebbri di guerra mi porta ad altre riflessioni. Alla necessità, impercepita ma non per questo meno potente, che abbiamo - noi umani o noi occidentali? - di immaginare un futuro che ci superi e nel quale resti un nostro segno, che sia in qualche modo una figura dell'immortalità. Mi è tornato in mente lo scarso entusiasmo con cui mi accingo a insegnare in corsi che non terrò nuovamente l'anno successivo e non mi hanno stupito le condizioni disperate in cui Cuaròn dipinge il pianeta dopo 18 anni di mancanza di futuro, né l'idea (che ritengo abbia fatto rizzare non poco pelo qui da noi ) della distribuzione governativa di kit per il suicidio. Che la specie sia immortale è un assunto talmente ovvio da entrare raramente in discussione, se non come semplice artificio retorico, come anche il ridurre l'emergenza attuale a qualcosa che si è già affrontato e sconfitto in passato. Temo che l'eccezionalità delle circostanze in cui ci muoviamo oggi continui di fatto a sfuggire ai più e qualcuno che ci metta perlomeno davanti all'interrogativo di cosa sia il buio collettivo in fondo agli anni è quindi a dir poco prezioso...

giovedì 7 dicembre 2006

The Boss - Born to RunPiano piano riuscirò a regolare tutti i debiti che ricordi e sincronicità mi stanno obbligando a contrarre Se avessi dovuto veramente procedere secondo l'importanza dell'album o del brano nella mia vita, questo sarebbe stato tra i primi, ma le maree interiori seguono ritmi inusuali e lasciano a riva ossi di seppia ogni volta diversi. Così arrivo a Born to Run dopo svariate altre segnalazioni e a una delle più belle canzoni del Boss - più che una canzone un atto unico per l'intensità e la capacità evocativa. Raramente Springsteen è riuscito a raggiungere simili vertici nella scrittura dei testi: poche pennellate e sei lì, davanti alla veranda scalcinata dove si sono infranti talmente tanti sogni da riempire la notte di fantasmi e di porte che sbattono nel vento e di stracci di canzoni rubate alla radio "Roy Orbison singin for the lonely"... E la tessitura musicale affidata a quei mattacchioni della E Street Band, Little Steven e Clarence Clemons in testa, una chitarra e un sassofono che non potevano non fare l'impresa! Thunder Road, pezzo meraviglioso che apre il primo disco acquistato di mio, senza cercare nomi noti, lasciando fare al caso: decisamente un buon segno

The screen door slams, Mary's dress sways
Like a vision she dances across the porch. As the radio plays
Roy Orbison singing for the lonely
Hey that's me and I want you only
Don't turn me home again, I just can't face myself alone again
Don't run back inside, darling you know just what I'm here for
So you're scared and you're thinking
That maybe we ain't that young anymore
Show a little faith, there's magic in the night
You ain't a beauty, but hey you're alright
Oh and that's alright with me
You can hide `neath your covers and study your pain
Make crosses from your lovers, throw roses in the rain
Waste your summer praying in vain
For a saviour to rise from these streets
Well now I'm no hero, that's understood
All the redemption I can offer, girl, is beneath this dirty hood
With a chance to make it good somehow
Hey what else can we do now?
Except roll down the window and let the wind blow back your hair
Well the night's busting open
These two lanes will take us anywhere
We got one last chance to make it real
To trade in these wings on some wheels
Climb in back, Heaven's waiting on down the tracks
Boss & the E-Street Band
Oh-oh come take my hand
We're riding out tonight to case the promised land
Oh-oh Thunder Road, oh Thunder Road, oh Thunder Road,
Lying out there like a killer in the sun
Hey I know it's late we can make it if we run
Oh Thunder Road, sit tight take hold, Thunder Road

Well I got this guitar and I learned how to make it talk
And my car's out back if you're ready to take that long walk
From your front porch to my front seat
The door's open but the ride it ain't free
And I know you're lonely and there's words that I ain't spoken
But tonight we'll be free, all the promises'll be broken
There were ghosts in the eyes of all the boys you sent away
They haunt this dusty beach road
In the skeleton frames of burned out Chevrolets
They scream your name at night in the street
Your graduation gown lies in rags at their feet
And in the lonely cool before dawn
you hear their engines roaring on
But when you get to the porch they're gone
On the wind, so Mary climb in
It's a town full of losers and I'm pulling out of here to win.