sabato 16 dicembre 2006

The InterpreterMi chiedo spesso perché un film è un bel film. Ci sono un sacco di motivi, senza dubbio: la qualità della regia, l'arte degli interpreti, la trama, la fotografia e molti altri, e la qualità generale del mélange che ne risulta. Questo, perlomeno, è quello che direbbe - almeno credo - una critica razionale e ragionevole. Ci aggiungerei però qualche altra ragione: una, molto poco razionale, è quella del particolare momento di grazia di qualcuno dei partecipanti all'impresa, quella volta in cui si è più di se stessi, quasi che il demone ci stesse mettendo mano in prima persona, e ogni scelta porta alla possibilità migliore e la qualità di ciò che si fa è palpabile, forse meglio evidente; un'altra, questa estremamente soggettiva, è il particolare accordo tra l'universo interiore dello spettatore e il film, che non dev'essere intellettuale o consapevole, ma ti fa pensare che quella che stai guardando è proprio la pellicola giusta per la serata (che arcaismi eh, pellicola ) e ti senti muoverti in armonia, piangendo quando c'è da piangere, ridendo quando c'è da ridere, seguendo la marea; l'ultima, che a questo film e a questa visione si adatta meglio delle altre - senza nulla voler togliere alle diverse bravure coinvolte - è la presenza di un sottotesto, metatesto o come volete e il piacere intellettuale della sua scoperta e della scoperta che è anch'esso armonico ai propri pensieri. Questa particolare ragioneDesktop di The Interpreter può essere solo soggettiva o anche oggettiva, laddove si scopra che il regista aveva veramente pensato a quel tema in filigrana. Ora non ho controllato, ma sono soddisfatto comunque. Al di là della questione evidente, dei genocidi e dei diritti umani calpestati, della vita degna che a molti - troppi - non spetta, The Interpreter mi è sembrato un film sul perdono, argomento sul quale si versano di questi tempi galloni di melassa, declinandolo quasi esclusivamente nei termini dell'obbligatorietà di concederlo non si sa per quale ragione (quella implicita è il "porgi l'altra guancia"). Questi termini mi danno l'orticaria. Il metatesto del film è molto più sottile: con la scusa della fantomatica nazione africana propone un'idea che è solo apparentemente simile alla nostra versione, perché l'atto del perdono non ha nulla a che fare con la bontà o la statura morale di chi ha subito il torto - e parliamo di assassini - ma con la saggia constatazione della sua necessità per il mantenimento di un equilibrio esistenziale e la possibilità di un ritorno alla vita. Perdonare è lasciar andare, accettare l'assenza di giustizia, qualcosa che va molto al di là del colpevole. Sean Penn lo capisce - a velocità da record, bisognaSean Penn ammettere *grin* - e Nicole Kidman sembra dimenticarlo. E c'è qualcos'altro, una scena che può sembrare retorica, ma in quest'ottica assume un senso molto bello: è lo smarrimento del dittatore costretto a confrontarsi con le sue parole di quand'era ancora un idealista, prima di cedere all'affarismo e alla tentazione del genocidio. È come vedere il Krapp di Beckett che rivede un se stesso di anni prima, lo trova bello e ciononostante non lo riconosce più... Può anche pentirsene, ma chi dovrebbe lasciar andare, in questo caso? Credo che l'attimo del confronto generi una tensione perenne, la coscienza del bivio sbagliato cui non si può tornare e un giudizio su di sé al quale non c'è perdono da opporre.

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