lunedì 22 dicembre 2014

Lo Hobbit 3

Probabilmente l'ho già scritto per i due episodi precedenti e mi trovo a doverlo ripetere: per quanto sia decisamente un'operazione commerciale, non riesco a prendermela troppo :) Ogni occasione per un giro nella Terra di Mezzo mi è cara, ogni scusa per ricordarne i profumi e i panorami - che sono soprattutto panorami dell'anima, senza nulla togliere alle splendide location - è buona. L'opera di Tolkien è, a mio modo di vedere, una delle cose migliori che il XX secolo ci abbia regalato e se qualche compromesso economico è necessario perché sia più conosciuta e apprezzata, ben venga. Da irriducibile ottimista penso che difficilmente un viaggio nei suoi boschi e nelle sue caverne lasci intatti e che sia un balsamo di cui i nostri tempi hanno un estremo bisogno. Tempi che a parole

spregiano l'immaginazione e ne sono perfino vittime, tempi che pensano ancora di ridurre ogni pensiero e creazione al riflesso su un conto in banca. Fortunatamente spesso i titolari di detti conti non realizzano il più ampio respiro delle loro azioni e iniziative, così la corrente continua a scorrere nonostante tutto, di effetto imprevisto in effetto imprevisto, e qualcuno si trova ad acquistare un libro, a comprare un gioco di ruolo o a entrare nel mondo strano e a volte troppo accogliente di un videogame. A realizzare, magari, che c'è di più: altre frontiere, altre vedute, altri strati della realtà di cui si è dolorosamente persa la consapevolezza...

Quindi esorto chi senta il richiamo della strada ad andare a vedere Lo Hobbit 3, come anche gli altri capitoli. E anche chi, da purista, pensa di poterselo risparmiare potrebbe trovare qualche bel momento, come lo scontro a Dol Guldur qui sopra, di cui non ho memoria dai testi, ma che dovrebbe essere andato proprio così, con una Galadriel sempre meravigliosa e un Saruman ancora bianco :D E poi, quant'è bella la compagnia di Thorin, compreso il suo scassinatore dilettante?

venerdì 19 dicembre 2014

The Wolf of Wall Street - The Counselor

Sembra che il nuovo AD di ENEL abbia dichiarato che è tempo di più industria e meno finanza. Sarebbe da standing ovation, se non fosse già intervenuto un empito di rabbia per il semplice fatto che una frase del genere vada detta e non risulti ovvia da sé. Eppure, in linea con la tendenza dematerializzante dell'occidente moderno, da molto tempo si è scambiata la furberia finanziaria per il nocciolo della questione economica: il magheggio al posto della produzione e qualcuno venga a dirmi che siamo noi italiani gli specialisti del gioco delle tre carte! D'altronde la roulette finanziaria ha tutto ciò che può affascinare un moderno: crea fortune in un batter d'occhio, non ha praticamente a che fare con oggetti materiali ed è invece il trionfo di numeri e algoritmi. C'è un solo problema: la si può definire "lavoro" solo con un salto d'immaginazione di cui la modernità pretende di non esser capace. Be', dopo aver visto The Wolf of Wall Street è piuttosto difficile darle retta, perché cos'altro è la storia vera di Jordan Belfort se non un sogno/allucinazione/incubo che riassume e denuncia le distorsioni e bugie cui un inflessibile corso immaginale ci ha condotto?

Non l'ho fatto apposta, ma il clima - per quanto la cosa non sia evidente - rimane lo stesso. E' un po' come seguire la catena alimentare degli squali o degli sciacalli, per restare nell'immaginario di Cormac McCarthy, grande autore americano contemporaneo responsabile dello script di The Counselor. I signori come quello qui sopra, in giacca, cravatta e cocaina, generano flussi di soldi che hanno il bacino idrogeologico in comune con quelli che arrivano da traffici illeciti di ogni sorta. Ogni tanto i mondi collidono e qualcuno si fa male. Nella fattispecie Michael Fassbender, avvocato che sceglie il momento sbagliato per saltare la barricata una volta per tutte. A proposito di Fassbender, devo ammettere che proprio non riesco a condividere l'entusiasmo di critici e registi per la sua recitazione: in mezzo al cast stellare che vedete qui accanto scompare e non credo sia una scelta di regia. Forse bisognerebbe chiedere a Ridley Scott, che comunque ci consegna un bel film, impegnativo e stimolante come ultimamente accade di rado. Qui, come nel cinema che ha senso, lo spettatore è meno spettatore e più interprete, se non proprio coautore. C'è giusto una caduta alla fine, quando il pistolotto didattico-filosofico dell'avvocato messicano lascia veramente il tempo che trova, ma nel complesso vale decisamente la pena :)

lunedì 6 ottobre 2014

Rush

È un po' che non scrivo, vero. Ho saltato qualche film - non molti, perché la febbre da serial non accenna a diminuire e presto mi toccherà aprire a commenti più estesi in proposito - ma è stato un anno complicato e mancava fondamentalmente la voglia. Rush me l'ha fatta tornare :) non tanto perché è un gran bel film: ottima fotografia, colonna sonora fantastica, bravi attori e bella regia; quanto perché, di nuovo, riporta a un tempo in cui c'era un equilibrio che poi è mancato. Un po' come quando ho scritto di Leatherheads - qui: il fascino della fase istituente, lo spazio al romantico e all'immaginale prima che l'economico prenda definitivamente il sopravvento. Non che in Rush questo manchi, anzi: il morituri te salutant a uso e consumo del pubblico pagante è terribilmente presente, ma non ha ancora colonizzato del tutto la cosa. La nutre e se ne nutre, ma c'è dell'altro, come il dialogo finale tra i due eroi mette bene in luce: uno l'eroe puro, capace solo dell'azione, ma che azione! L'altro, già calcolatore, tecnico, con un piede nel triste mondo che verrà, ma comunque disposto a cedere un titolo mondiale per la sua vita e per l'amore, comunque grande pilota. E c'è una bella notazione, all'inizio, sull'interesse delle fanciulle per i piloti. Dice Hunt - Chris Hemsworth, in altre parole Thor :D - che è dovuto alla vicinanza della categoria alla morte e al surplus di vita che ne consegue; il che non sarà granché razionale, ma è capace di spiegare molte delle dinamiche autodistruttive cui si assiste oggi, che la vita amministrata e computata è sempre più difficile da definire tale e a molti non resta che giocare per il surplus, sperando di ottenerne almeno un assaggio.

martedì 7 gennaio 2014

Moonrise Kingdom - La regola del silenzio

Che il cinema di Wes Anderson faccia storia a sé dovrebbe essere ormai cosa risaputa. Bastano pochi fotogrammi perché ci si accorga di essere da qualche altra parte, un posto misurato eppure surreale dove succedono cose piccole di grande momento. Soprattutto per chi vive nei mondi accanto, dove la misura è scomparsa e se non si ragiona sulla scala del cataclisma sembra si perda tempo. Moonrise Kingdom racconta di un posto così, non meglio identificato, dove un cast d'eccezione - Bruce Willis, Edward Norton, l'immancabile Bill Murray tra gli altri -  conduce esistenze poco entusiasmanti, ma accettate con filosofia e un pizzico di rassegnazione. Basta la fuga d'amore di due dodicenni, entrambi ragazzi difficili per la regola del luogo, per frantumare la routine e portare ognuno a fare scoperte su di sé. Scoperte per una volta positive, che sbloccano lo stallo e cambiano l'aria. Alla fine tutto è cambiato, ma nulla pare diverso, forse solo più a fuoco. Un film da vedere, su cui meditare magari con una buona birra.

La regola del silenzio, invece, è qui di brutto :) Parla di questo mondo e delle diverse prospettive con cui lo si può comprendere; del convivere con ciò che si fa in nome di queste prospettive e dei prezzi che si pagano. Parla in particolare delle strategie di contenimento dell'opposizione e della critica che il famoso Sistema sa mettere in atto, codificando certi fatti con severità (e fin qui si sarebbe anche d'accordo), mentre altri, molto molto simili, passano in secondo piano, vengono costruiti diversamente e così percepiti come cosa altra oppure condonati, dimenticati (e qui ci si dovrebbe urtare almeno un pochino). Anche qui un cast notevole - Robert Redford, anche regista, come sempre impegnato, Susan Sarandon, Shia LaBoeuf e altri - anche se il film mi lascia appena appena interdetto. La narrazione è avvincente, il ritmo equilibrato, ma restano parecchi interrogativi privi di risposta e c'è un buonismo di fondo che si scontra con la crudezza del contesto e dell'impresa critica. Ci stanno i gesti nobili e gli affetti incorrotti in una storia così? Vederlo e pensarci su :)

giovedì 2 gennaio 2014

Vita di Pi

In prima battuta volevo solo scrivere "Bello!". Un cinema al suo meglio, con una ricchezza estetica e immaginifica ineffabile.

Poi mi è tornato in mente Eugen Fink: "Tutti conoscono questa inquietante trasformazione nel paesaggio della vita umana. Il disincantato vede, d'un tratto, le cose in modo diverso. Non è esatto dire che vede 'in modo più vero'; egli è più critico, più diffidente, e vede più chiaramente ciò che vede la diffidenza, ma non vede più ciò che vedono gli occhi dell'anima" (Il gioco come simbolo del mondo, Firenze, Hopefulmonster, 1991, p. 89). Credo che Vita di Pi sia la migliore illustrazione possibile dello "sguardo cattivo", che disprezza i poeti e crede solo nei fatti e preferisce fare a pezzi una poesia piuttosto che farsi una domanda. Ecco, credo che Ang Lee abbia voluto esprimere molto di più di quel che le parole possono dire e gli sono grato per questo, per aver affermato la bella immagine sopra ogni altra cosa. Per essere andato ben oltre il Pi greco, nella storia e nell'ispirazione... Oggi più che mai abbiamo bisogno di più tigri e meno burocrati. Più giochi di delfini e meno fretta. Più meraviglia e meno algoritmi.