domenica 29 dicembre 2013

Soul Asylum - The Silver Lining

Pare che mi servano dei propositi di fine d'anno a misura e la cosa non mi stupisce. Come sempre, il mio genio personale mi ha fatto un regalo - e profitto dell'occasione per ringraziarlo e perdonarlo per un sense of humour a volte irritante - che senza volere ci sta tutto e risveglia passioni e stimoli che da un po' languivano. Così, nell'attesa di riuscire a rimettere in piedi un impianto stereo degno di questo nome e della mia collezione dormiente di LP, ho deciso di inaugurare una nuova rubrica, della quale non garantisco in alcun modo la continuità, ma la qualità sì :) Rubrica che avrà a che fare con dischi che potrebbero essere vinili, nel senso che probabilmente non ne avrò la versione lucida e profumata di cui parlava di recente un amico, ma che meriterebbero quella dimensione e quel trattamento.

Avendo passato la mezza via simbolica (non credo che avrei abbastanza pazienza per altri cinquant'anni, comunque :) posso indulgere in qualche ricordo e compiangere quelli che non sanno di cosa parlo. E' vero che la memoria tende a riproporre il passato in una luce dorata, ma è anche vero che spesso le vecchie cose erano molto meglio delle attuali, alla faccia del mito del Progresso. Il vinile e la musica come la si viveva ai suoi tempi sono senza dubbio tra queste. Perché non era solo questione di musica, ma di un'esperienza immaginale e sinestesica dove l'oggetto e i suoi corollari giocavano un ruolo centrale.
Quante volte abbiamo acquistato un disco per la copertina, senza avere idea di chi ne fossero gli autori, quante cure per assicurarsi un ascolto perfetto, tra tamponi antipolvere, spazzolini per la puntina e spray antistatici :D E poi il gusto dell'ascolto intero, della ricostruzione del percorso compositivo, la memoria maniacale dell'ordine dei pezzi, della suddivisione in facciate...

Non ne resta molto, oggi. Tanto che della gran parte della musica che ascolto non so che copertina abbia e faccio molta fatica a ricordare i titoli. Certo, sono assai più vecchio di allora, ma non credo sia solo questo. E' anche che l'esperienza della musica si è fatta scialba e superficiale e che di rado la qualità è tale da far ricordare canzoni e relativi autori. Anche qui le motivazioni industriali sono riuscite in gran parte a distruggere ogni altra spinta e preoccupazione, a distruggere - paradossalmente - ciò che dovrebbero produrre, nell'ennesima dialettica dell'Illuminismo. Qualcuno però, a volte, riesce a mantenere la barra verso un felice equilibrio delle aspirazioni. Non sono tanti e l'elenco è tutt'altro che esaustivo - c'è anche troppa roba da sentire, l'ipertrofia della cultura oggettiva qui è manifesta e soffocante - però la rubrica la dedico a loro, con la stampa virtuale dei miei nuovi LP.

Il primo è The Silver Lining, dei Soul Asylum. Scoperta recente, rock del taglio che preferisco, con quella qualità anthemic che IMHO è tratto irrinunciabile e qualificante. Quella che ti spinge ad alzare le braccia al cielo e a cantare, in uno stato di esaltazione gioiosa ed energica. Non saranno terribilmente originali - sento echi di Boston, UFO, REO Speedwagon e altri - ma hanno una chiara riconoscibilità e una lunga storia alle spalle. The Silver Lining, poi, è proprio quello che ci voleva per chiudere l'anno horribilis 2013 e cominciare di nuovo con uno straccio di sorriso. Viene da un'espressione idiomatica inglese che ricorda che ogni catastrofe, a cercar bene, ha un lato positivo: quest'anno c'è molto da cercare, ma l'essenziale è non perdersi d'animo e pezzi come Lately, Stand Up And Be Strong e All Is Well aiutano. Un po' come il faro in copertina, all'interno del quale, con un mezzo sorriso, si può dire "All in all, all is well"!

La promessa dell'assassino - Lo Hobbit 2

Bel film dove David Cronenberg si cimenta con una problematica spinosa, coi toni di un noir anni Settanta, in stile Fassbinder. La promessa dell'assassino va a scandagliare uno dei buchi neri della nostra cultura, il mantra dell'individualismo egoista per cui è meglio non immischiarsi negli affari degli altri per non correre rischi. Il che - se da un lato è empiricamente dimostrato: facendo qualcosa si rischia di più che non restando fermi - non tiene in alcun conto la dimensione interiore soggettiva, quella per la quale a volte semplicemente non puoi far finta di niente e girarti dall'altra parte. Nello specifico la sorte non è soltanto infingarda e strafottente e in una serie di colpi di scena smentisce l'assunto iniziale, che non a caso era oggetto di critica. L'ecologia dell'azione moriniana, vestita dei panni di Naomi Watts e Viggo Mortensen - sul quale stavolta non ho nulla da eccepire :) - acquista in ritmo e potenza e resta comunque un enigma affascinante.

Dice mia moglie che non capisce perché Peter Jackson abbia dovuto allungare e complicare tanto la storia... Per una volta non credo sia solo una questione economica, anche se la lettura immediata, nel clima di derivazioni economicistiche imperante, non può che andare in quella direzione. Credo piuttosto sia una questione di dipendenza :) Tre puntate da quasi tre ore l'una consentono ai drogati - tra i quali mi iscrivo senza batter ciglio - di assumere una dose accettabile di Terra di Mezzo e riprendere la strada là dove la si era lasciata qualche tempo prima. E l'operazione è ben fatta, anche se immagino che i puristi si straniranno per presenze impreviste e arricchimenti di trama. Il casting della comitiva nanesca è perfetto e, a dirla tutta, Martin Freeman come Bilbo mi piace molto di più di Elijah Wood come Frodo. E, a parte questo e per uscire dall'apologia, credo che stavolta emerga con forza l'ennesima intuizione di Tolkien, che rende la sua produzione la chiave di volta del Novecento narrativo: la forza delle piccole cose, la polemica con l'assioma quantitativo per cui qualcosa conta solo se è grande, sempre più grande, assurdamente grande. Gli eroi qui non sono anti-eroi, sono semplicemente non convenzionali e con questo stratagemma dimostrano quanto la convenzione sia priva di fondamento e potenzialmente devastante, Boromir docet. Cosa che vale in Arda e sulla Terra.

domenica 22 dicembre 2013

Molto forte incredibilmente vicino - Argo

Non posso dire di adorare la narrativa statunitense contemporanea, almeno per quanto riguarda i cosiddetti "mostri sacri". Mi sembrano peccare dello stesso difetto che affligge buona parte degli omologhi italiani, il gusto esagerato per la propria scrittura, a scapito della narrazione e della leggibilità. Safran Foer non fa eccezione e Molto forte incredibilmente vicino segue, sebbene i linguaggi siano diversi. Non che sia un brutto film, ma qualcosa nel ritmo, nell'enfasi stride, costringendoti a riconsiderare il retrogusto. Sarà forse che la bella strategia educativa di Tom Hanks è inestricabilmente connessa alla particolarità del figlio e quindi atipica, emergenziale, laddove potrebbe rappresentare una nuova frontiera per ridisegnare la normalità; sarà l'atmosfera sul filo della patologia e il tratto estremo con cui sono tratteggiati i personaggi che non sfonda il quotidiano, ma semmai lo rafforza a contrario attraverso l'incommensurabilità... Insomma, un film da vedere che a mio parere avrebbe potuto andare molto al di là del risultato effettivo.

In Argo, invece, l'equilibrio è notevole: dove la sfida della storia vera avrebbe potuto portare a un appiattimento ha invece condotto a una ricerca visuale e iconografica di altissimo livello, a personaggi solidi e a una narrazione coinvolgente, da action movie. Chapeau a Ben Affleck, nel doppio ruolo di regista e protagonista, che tesse l'omaggio all'impresa col confronto impietoso con la burocrazia e la paralisi immaginale degli apparati, dimostrando che un adeguato cocktail tra homo sapiens e homo demens è in grado di farsi azione con maggiore efficacia di quanto la retorica corrente, costruita su statistiche e procedure, possa mai aspirare a ottenere. Certo, ci vuole il coraggio dell'esempio e un senso di responsabilità che spesso latita, ma da questa storia incredibile si può uscire tutto sommato rafforzati e un tantino più ottimisti.

venerdì 22 novembre 2013

Ralph Spaccatutto

Di nuovo lo zen, per fortuna! A volte temo che la ragione sia un po' come le fragole, molto saporita ma invadente e colonizzatrice, capace di soffocare - se lasciata libera - qualunque altra pianta. Poi inciampo in film come Ralph Spaccatutto e tiro un sospiro di sollievo :)

Proprio ora che si sta discutendo di distinzione - e quindi in ultima analisi di divisione, di diairesi - mi trovo a tu per tu con un cattivo da videogame, di quelli che non dovrebbero creare nessuna difficoltà categoriale e adattarsi alla perfezione nella loro bella casella nera, che non vuole più essere solo cattivo... Nonostante il programma lo abbia creato così (tanto per non parlare di determinismo), Ralph ogni tanto vorrebbe trovarsi con gli amici, ricevere una pacca sulle spalle, mangiare una fetta di torta. Cose semplici eppure inarrivabili, perché lui è il CATTIVO e quindi non può (deve?) avere certe idee. C'è perfino un circolo per cattivi anonimi dove i vari uomini neri si confortano gli uni con gli altri per sopportare le micidiali aspettative del loro ruolo! E' un film geniale, devo dire, che mi conferma nella convinzione che ultimamente, con notevole ironia, le cose migliori che vedo sono pellicole d'animazione, che sembrano l'ultimo territorio dove è possibile esercitare l'intelligenza fuori dai vincoli del marketing.

Non voglio fare spoiling - anche se immagino sospetterete un happy end che ci sta tutto - ma la trama si snoda attraverso una serie di idee e situazioni che riescono a non perdere di vista l'ispirazione centrale, anche se la trattano e discutono con grande leggerezza, per chiudere su uno splendido esempio di confusione creativa sul quale invito chiunque ne abbia voglia a riflettere al di fuori degli schemi e pregiudizi correnti. Tipo il fatto che fumetti e disegni animati siano roba da bambini ;)

venerdì 25 ottobre 2013

In Time

Meglio tardi che mai, direte :) e non avrete neanche tutti i torti, solo che a volte la vita si diverte più del dovuto a complicartisi e il tempo per blog e meditazioni cinematografiche se ne va a quel paese. Be', alla fine però si torna e stavolta si torna niente male, anche se a dar retta ai pregiudizi si potrebbe essere scettici. Eppure Justin Timberlake se la cava eccome in In Time e il film ha quell'equilibrio azzeccato tra action e idea intelligente che gli fa perdonare qualche semplificazione di troppo. Il problema, come capita spesso, è che è tutto plausibile. In un mondo dedito alla commercializzazione della qualunque, cosa potrebbe esserci di più ovvio del trasformare il tempo in valuta? Nel delirio riduzionistico del discorso corrente e nell'apoteosi dell'ideologia brutale della concorrenza come filosofia di vita, un mondo retto dal conto alla rovescia ci sta, hai voglia se ci sta. D'altronde, il presenteismo di oggi non è già una versione soft di questo ragionamento? La tirannia del progetto e la precisione micidiale degli strumenti di misura non lo stanno annunciando da decenni? Quindi di che stupirsi?

Semplicemente dello smarrimento del senso. Tutta la retorica attuale si è dimenticata di questo piccolo dettaglio, del fatto che sofferenza e sacrificio diventano sopportabili solo in una prospettiva di significato più ampio, solo se puoi dartene conto, in un modo o nell'altro. Fini a se stessi, si rivelano presto come uno stratagemma da quattro soldi con cui qualcuno sta cercando di fregarti. E quando anche questo qualcuno non sa più perché lo fa, il cerchio è chiuso e se c'è ancora tempo si può cercare di ricominciare in modo meno idiota. Prescindendo dal film, a mio parere siamo esattamente a questo punto.

P.S. per la serie Avvistamenti: Matthew Bomer, di White Collar, inizia tutto e Johnny Galecki, di The Big Bang Theory, dimostra di non saper gestire granché il suo tempo :)

domenica 25 agosto 2013

Wolverine e altro

A parte la ripetizione rassicurante, in effetti, non c'è granché da dire, né per Wolverine, né per gli altri film in cui sono più o meno inciampato in questo periodo :) E' vero che per la gran parte si tratta di operazioni commerciali più o meno azzeccate, ma come al solito vale la pena di guardare oltre l'ingannevole semplicità della spiegazione economica. E questo può dirsi per ogni spiegazione economica. L'ennesimo sequel (o prequel, perché no?) ci parla dell'inaridirsi dell'immaginazione degli autori del sistema dell'entertainment, che teoricamente dovrebbero esserne i più forniti, cosa che ci permette di disperarci per l'energia fantastica degli altri. L'incanto è merce rara, di questi tempi, e mi chiedo come potrebbe essere altrimenti in una visione del mondo sempre più avvitata nelle trappole produttivo-amministrative e nella lettura monodimensionale del mondo e dell'uomo. Questo però non spiega perché prodotti stanchi di tal fatta dovrebbero avere successo. Il sequel ci parla quindi anche di qualcos'altro, nascosto sotto i panni degli eroi Marvel o di altre versioni più recenti. Dell'effetto ninna nanna del racconto mitico in tutte le sue varianti, della frequentazione amicale e quotidiana degli eroi e del suo effetto balsamico su uno spirito esausto. C'è qualcosa di rituale nel reiterare schemi e avventure e a volte se ne sente il bisogno. Come nel rivedere per l'ennesima volta l'intero ciclo delle pellicole di Harry Potter, dopo aver letto e ascoltato i romanzi. Come nel tornare in viaggio nel Signore degli Anelli. Alle volte c'è da ritemprarsi e vista l'atmosfera del tempo sospetto che sia un'esigenza diffusa e pressante. E' buffo che queste storie disprezzate dalla Cultura con la maiuscola siano al tempo stesso motore economico e medicina per i disastri dell'economicismo. Il divertente è che l'industria cinematografica, dando loro sempre più spazio, rischia - è un rischio lontano, visti i tempi, ma chi può dire? - di lavorare contro se stessa e gli assiomi mai criticati che la rendono ciò che è. E questo, di nuovo, non vale solo per il cinema, ma per l'intera cultura estremo-occidentale, che non sa più a che droga votarsi per rendersi vagamente sopportabile e alla fine potrebbe aver trovato quella "sbagliata", capace di innescare un salto verso qualcos'altro. Bisognerà vedere quanto lo sdoganamento dell'immaginale potrà modificare un corso all'apparenza fissato, ma è pur sempre un inizio.

lunedì 15 luglio 2013

The Lone Ranger - Luigi Ghirri

In effetti non c'è molto da dire. The Lone Ranger mi è piaciuto, ma in certi casi sono piuttosto acritico, soprattutto davanti a un Johnny Depp che ritrova una recitazione minimalista fatta di microespressioni, variazioni sul filo dell'impercettibile eppure potenti, gesti calibrati ad arte, che sebbene al servizio di una storia da botteghino la rendono qualcosa di più. Forse, come accade molto spesso ultimamente, ce la saremmo cavata altrettanto bene, se non meglio, con una mezz'ora di film in meno. Pare però che in un tempo quantitativo la qualità non si riesca a concepire se non in confezioni extralarge, per cui le opzioni sono scarse: o si accetta la cosa con filosofia, in attesa di un risveglio collettivo dall'idiozia; o ci si rifugia in eremi d'autore, che non è detto vadano esenti dagli stessi problemi; o si dismette il cinema tout court. A guardarlo con occhi adeguati, però, il cinema conserva una sua magia nonostante. Nonostante le richieste dei produttori, la sbornia degli effetti speciali, le battute che non possono non esserci eccetera eccetera.


E' quasi sempre questione di sguardo, a dire il vero. Uno che ne era assolutamente convinto è Luigi Ghirri, maestro fotografo cui il MAXXI dedica una mostra articolata in tre parti: Icone, Paesaggi, Architetture, dall'eloquente titolo Pensare per immagini (fino al 27 ottobre prossimo). Una bella esperienza, casuale come la gran parte di quello che mi capita ultimamente, di incontro con un altro viandante che credeva fermamente nella possibilità di rieducare gli occhi alla meraviglia, a una ginnastica di scoperta e di incanto sempre meno praticata, con esiti tristemente evidenti. Il Catalogo di elementi architettonici ritratti e ribaditi nella falsamente piatta ripetizione delle periferie è forse un filo troppo concettuale, ma di grande efficacia nell'affermare l'inganno dello stereotipo, la beffa della produzione in serie, in ultima istanza l'illusione del controllo e della routine. E altri scatti lasciano senza fiato.

domenica 16 giugno 2013

Dark Shadows

Massì, rimoduliamo :) ultimamente i temi di gran parte della fiction convergono in costellazioni piuttosto coerenti e li ritrovi, più o meno variati, dove non te lo aspetteresti. In Dark Shadows, del buon Tim Burton, i grandi motori, pur nel tributo alla serie televisiva di cui il regista era appassionato, sono di nuovo la famiglia e il discorso sul Male, incarnato tanto per cambiare nel vampiro, figura che va più che per la maggiore. In un certo senso il film costella con tutta la saga di Twilight, salvo che Johnny Depp non sbrilluccica ed Eva Green è uno schianto ;) La cosa comica è che, sempre più spesso, il discorso sulla famiglia prende una piega mediterranea del tutto incoerente con l'universo culturale di riferimento: "la famiglia è tutto", "la famiglia viene prima di tutto" e via improvvisando sono frasi che ti aspetteresti in Gomorra o I Soprano, per come funzionano stereotipi e immaginario moderno condiviso. E invece questo primato risuona in posti inediti. Tra tutti il più improbabile è forse la bocca di quella che dovrebbe essere l'immagine del Male. Bisognerà tentare una lettura immaginale della rivisitazione corrente del vampiro, in effetti. Qualcosa che abbia a che fare con l'eufemizzazione della metà oscura, della quale cominciamo a prendere atto, con le cattive più che con le buone. Con la necessità di venire a patti col mostro che tutti ci portiamo dentro, ma che la nostra cultura non è in grado di vedere o accettare. I cambiamenti di fronte cui si assiste sono, per certi versi, i primi tentativi di superare il chiaro e luminoso uomo razionale di cui Cartesio ci ha fatto dono qualche secolo fa e trovare un modo di rappresentare l'uomo per quello che è, a mezza strada tra angelo e demone.



domenica 2 giugno 2013

Fast And Furious 6

E' buffo. Qui da noi - ma non siamo i soli, oh no! - è in corso un'offensiva da ultima trincea contro le scienze umane, delle quali sono tutto sommato un esponente, che mira a rimuoverle dal quadro del sapere accettato e promosso. Cosa che non dovrebbe stupire più di tanto, visto che di umano in questa società non resta granché: abbiamo burocrati, manager, docenti, meccanici, ingegneri, scienziati eccetera, ma si tratta di funzioni, di ruoli sotto i quali - come direbbe Vanzina - non c'è niente e quindi a che pro mantenere in vita delle discipline e un pensiero che le fonda che ormai hanno perso il loro oggetto di studio? Non c'è molto da commentare, se non notare che Fast And Furious 6 dice la sua in proposito :) Incredibile, visto il tipo di film non proprio intellettuale, con adrenalina al massimo e una mistica dell'auto che ti fa quasi venir voglia di partecipare a una corsa clandestina. Eppure lo scontro tra Bene e Male che come sempre sottende le nostre narrazioni stavolta si presenta con grande chiarezza. Il cattivo segue il codice della precisione, per lui una squadra, un team, è un insieme di funzioni fungibili, con portatori sostituibili che devono solo assolvere a un incarico. Il che lo rende imprevedibile e vincente, visto che non è legato ad alcun tipo di rapporto... Vero che sembra il credo dell'economia attuale? I buoni, la squadra di Dom Toretto, invece osservano il codice della famiglia. Si è uniti da qualcosa di più e ci si sacrifica gli uni per gli altri, altrimenti non c'è vittoria. Sono prevedibili e hanno punti deboli - pensa, non sono autonomi e autosufficienti! - e quindi non possono che perdere. Inutile che vi dica chi ha ragione e chi torto. Certo è che la schizofrenia dell'Occidente è ormai alle stesse e che, se prima la serie mi piaceva, dopo oggi mi piace MOLTO di più :D

mercoledì 29 maggio 2013

007 Skyfall

Benvenuti nel XXI secolo. Pare che i cicli del brave new world stiano accelerando e così ci troviamo di nuovo in una situazione critica, ma tristemente sprovvisti dell'entusiasmo che in altri tempi la rendeva desiderabile e stimolante. E non è una prerogativa del nostro eroe preferito, quello che probabilmente incarna in modo emblematico la sicurezza moderna in sé e nel proprio braccio tecnologico. Vengo da una lunga serie di attacchi al cuore delle istituzioni: Homeland si chiude, per questa stagione, con un attentato devastante al centro operativo della CIA; NCIS vede esplodere il quartier generale; Skyfall, a parte il titolo che è tutto un programma, vede violato il santuario del MI6. Direte, è normale, una volta trovato un colpo di scena che funziona ecco che tutti si affrettano a replicarlo. Vi dirò, può anche darsi, ma il fatto rilevante è a monte: è il primo che è riuscito a immaginarlo come colpo di scena accettabile, verosimile, presentabile. E' il primo che ha superato il freno simbolico e così ha dato voce all'inquietudine diffusa che quest'incantesimo a contrario cerca di scongiurare. E pian piano la litania sale negli ambiti più diversi, a sancire un tempo dove non c'è più nulla di inviolabile e rassicurante. Non lo definirei neanche più tempo dell'incertezza. L'incertezza ha un margine sul quale si vive, che può anche diventare accogliente, con i dovuti aggiustamenti. Qui siamo nell'apocalisse, nella certezza opposta della caduta. E quando è il cielo a cadere, come ben sapevano i Celti, si ha paura.

Il paradigma si sgretola, gli argini cedono, c'è un bisogno religioso di eroi e 007 non si
sottrae. Torna direttamente dalla tomba e non mi pare cosa da poco. Quando il cattivo di turno, un incredibile Javier Bardém, gli chiede qual è il suo hobby, lui risponde serafico "La resurrezione". Di nuovo, nessuno si illuda che si tratti solo di una battuta a effetto: la lingua è molto più intelligente di noi e noi stessi lo siamo molto più di quanto non pensiamo. Se qualcuno ancora crede che una frase, un'immagine, un oggetto abbiano un solo senso e non a caso sia quello più evidente o legato alle dinamiche dell'economia e del successo, quel qualcuno vive veramente ancora nel XX secolo e nel suo letale equivoco razionalistico. E' decisamente tempo di riconoscere che c'è molto di più in cielo e in terra che non le ovvietà con cui fingiamo spesso di ragionare e spiegare il mondo. E Skyfall è decisamente un bell'esercizio per rendersene conto. Nonostante gli Oscar e gli incassi :)

domenica 12 maggio 2013

Anonymous - Ironman III

Come diceva Colli, c'è un tempo per vivere e un tempo per scrivere. Siccome, tra l'altro, scrivere non è facile, non è rilassante, non è la cosa più naturale del mondo come sembrano ritenere in molti, a volte ci si occupa a vivere tralasciando la seconda attività. E ci si trova con qualche film di ritardo :) Niente di che, ma il sempiterno senso del dovere (persino verso un blog sigh) spinge a rimettersi in paro. E' comunque vero che un po' di tempo è utile per trovare le tracce giuste da seguire, più che utile necessario oserei dire, e che così si scorgono prospettive non proprio immediate. Anonymous, ad esempio, è un film molto godibile, ma lasciato decantare offre spunti stimolanti. Da una parte un affondo vellutato alle pretese di esaustività che il nostro sapere accampa senza sosta, ormai quasi soltanto in forma di wishful thinking per il futuro, ma che comunque continuano a nutrire aspettative difficili da gestire al momento della smentita: ancora oggi, dopo tanto tempo, non sappiamo chi fosse Shakespeare, una delle voci più pure e meravigliose della letteratura mondiale. Ancora oggi, quando ne facciamo il nome, ci riferiamo a non si sa chi, eppure lo sanno in pochi e in meno ci fanno caso. Come accade, disgraziatamente, con la gran parte delle parole che di solito si adoperano. Illusi, boriosi e ignoranti, molto spesso... Ottime basi su cui costruire le nostre certezze. Perché meravigliarsi se poi si sgretolano? Su un versante più squisitamente sociologico - come dicono quelli che se ne intendono :) - è interessante invece considerare come vari la stima sociale verso certe attività, come i diversi status richiedano, in epoche e culture diverse, sacrifici, esclusioni e compromessi, attagliandosi alla meno peggio alla gran parte dei loro occupanti. E' quando capita ciò che il film adombra che i nodi vengono al pettine e il rapporto tensivo tra sociale e oltre dal sociale (ah, Simmel :D) si rivela inadatto, inutilmente riduttivo. E' quando il demone si presenta nel suo splendore che ogni discorso di medietà, adattamento e convenzione perde di senso. Bisognerebbe rifletterci con più attenzione e meno pigrizia mentale, se vivessimo in una cultura che si interessa ancora del benessere dei suoi membri. Ed è comunque buffo e doloroso pensare - se la tesi del film è vera - al presente, in cui scrivono cani e porci, e al tempo del Bardo, quando per riuscire a dar voce all'arte ci si doveva nascondere dietro lestofanti e mascherate, mettendo a rischio vita e ricchezze. Chissà se c'è una qualche relazione tra il costo di ciò che si scrive e la sua qualità...





Altro giro, altri regali. Terzo episodio della saga di Ironman, uno degli eroi più immaginalmente interessanti del periodo, dove il buon Tony Stark - il perfetto Robert Downey Jr - sconta le conseguenze dell'ultima avventura degli Avengers, accennando per una volta ai costi del confronto con l'inconcepibile, tema centrale per esempio in Lovecraft. Effetti speciali da centinaia di specialisti, ritmo a dir poco serrato, parecchia (auto)ironia e un buon modo per fare i conti col tema/problema della tecnologia e di quello che può derivarne. Di fatto Ironman è questo, il contraddittoriale attraverso cui la nostra cultura cerca di capirsi un po' meglio, di immaginare quali esiti potrebbero presentarsi alla corsa spesso insensata verso un progresso senza se e senza ma. Epperò non è questo che mi intriga ora: è piuttosto l'ennesimo segno del tempo, nascosto nell'iterazione. Si dice da più parti che i sequel non sono altro che il mezzo scelto da Hollywood per far soldi senza grossi rischi, alla faccia della mitologia dell'imprenditore e del suo agire d'azzardo. Sarà anche vero, per carità, ma secondo me c'è di più. C'è una forma di inganno che ci consente di evitare lo stigma sulla routine venuto con la modernità, l'orrore della ripetizione che invece ha sempre giocato un ruolo centrale nelle storie umane. Prima le avventure degli eroi erano quelle, emblematiche, iscritte in un tempo/non tempo, il tempo sacro dell'altrove. E narrarle portava lì, astraeva dalla realtà quotidiana e rinsaldava la circolarità della vita, una delle migliori strategie contro l'angoscia del tempo che scorre. Oggi nessuno vorrebbe riascoltare consapevolmente la stessa storia, ma tutti ne hanno bisogno e le nuove puntate salvano come sempre capra e cavoli: sembrano nuove, ma sono lo stesso racconto. E' qui il fascino del serial, un'altra derivazione paretiana che ci permette di aggirare uno dei tanti divieti che ci siamo imposti senza pensare, sull'onda di un altro fascino e di un'altra illusione.

sabato 6 aprile 2013

J. Edgar vs Spiderman

Per quanto Clint Eastwood e Leo DiCaprio mi piacciano veramente tanto, J. Edgar mi ha lasciato piuttosto perplesso. Non è solo la strana qualità del trucco che, soprattutto col progredire della storia e l'invecchiare dei personaggi, li trasforma in maschere di plastilina più che in esseri umani - e sul perché ci si potrebbe interrogare; non è solo la difficoltà di empatizzare con un personaggio molto lontano dalle mie simpatie. Credo sia il disagio che genera la crescente consapevolezza che molti tratti della cultura attuale sono stati modellati e accentuati da psicopatici. Perché difficilmente J. Edgar può definirsi diversamente, oltre ad essere ipocrita e piccolo da altri punti di vista. Eppure ha dotato l'FBI, sua creatura, di procedure e mezzi che oggi appaiono ovvi, adeguati. Ha visto l'importanza della scienza applicata e dell'elaborazione statistica. E il fatto che fosse così... strano, come depone verso questa sensazione di ovvio? Stesso problema che si affaccia quando si consideri Frederick Taylor, il maggior responsabile della svolta organizzativa e razionalizzante che caratterizza (soffoca?) la stessa cultura: un uomo che dedicava gran parte delle sue risorse creative a trovare modi per non cadere dal letto di notte, quand'era regolarmente assalito da incubi. Stupisce che volesse avere tutto sotto controllo? Quello che stupisce di più è che una cultura intera abbia aderito a questa ossessione, facendola propria e spingendola sempre più in là, accoppiandola alla pretesa di performatività e di guadagno sempre e comunque, sempre maggiore, senza alcun pensiero alle conseguenze e ai costi. Temo ci sia da pensarci su.


Sembra piuttosto evidente, da quanto scritto sopra, che la sfida del titolo la vinca uno dei miei supereroi preferiti, lo stupefacente Uomo Ragno :) E non solo perché questo - che è in effetti l'ennesimo remake - mi libera definitivamente da quel carciofo di Tobey Maguire, che non ho mai capito come avesse fatto ad accaparrarsi la parte, ma perché segnala dei cambiamenti interessanti nel concepire l'eroe e le sue caratteristiche, peculiari della Weltanschauung americana. Peter Parker - un molto più adatto Andrew Garfield (che diavolo, è simpatico!) - è molto meno ossessionato di prima dal segreto e dalla preoccupazione (peraltro comprensibile, ma finora assolutizzata in modo soffocante) per chi lo circonda: ha un'aria più saggia - avevo pensato a "fatalistica", ma è un aggettivo che da noi ha pessimo corso... - più scanzonata e, soprattutto, si gode senza macerarsi la condizione di supereroe! Come dovrei aver già scritto, la questione è interessante e significativa: in una cultura dove l'originalità viene affermata come valore fondante, il supereroe tende a voler essere normale: si pensi a Smallville e a quel poveraccio di Superman, perennemente dilaniato dalla necessità di mentire su se stesso e i suoi rapporti. E' un po' il problema dell'"oltre da" simmeliano: sembra che il segreto della nostra originalità sia pericoloso e debba essere dissimulato, sostituito con un'eccentricità di facciata che lascia il tempo che trova. Una dialettica massacrante tra conformismo e modi di vita sempre più urlati e vuoti. Beh, Spiderman stavolta se ne frega! Si inebria dei suoi poteri - derivanti per di più dalla sua parte animale, e che animale! - e gestisce con una certa flessibilità i suoi rapporti. Diamine, mi piace assai e che invidia :D

martedì 12 marzo 2013

Django Unchained

Io non so quanto si possa restare geniali, né in effetti cosa voglia dire di preciso. Né, ancora, se voglia dire sempre la stessa cosa, lungo la vita di qualcuno, autore, artista, studioso, fabbro o qualunque strada abbia scelto. So però che ammiro Tarantino per la fedeltà al suo cammino, che non è sempre la stessa, ma in certo modo sì. Django non è Pulp Fiction, né altri suoi capolavori, ma è suo, senza un attimo di esitazione nell'attribuzione. E la narrazione è più distesa, meno sperimentale, forse sì. La domanda però è: e allora? (avevo in mente un'altra cosa, ma oggi mi sento ricercato :) Essere un innovatore significa innovare sempre e comunque o anche ricordarsi il gusto di una bella storia ha la sua importanza? Le parole d'ordine di questo tempo stupido cominciano seriamente a darmi sui nervi: l'obbligo al colpo di genio costringe a idiozie colossali e ad altrettanto colossali fraintendimenti, perché si può pensare che bastino i colpi di genio (o gli effetti speciali, per venire a una categoria corrente di deus ex machina) per creare una storia che valga la pena di essere narrata e ci si ritroverà con una bella gara a chi la spara più grossa... Parlavo di cinema, comunque, fedele specchio dei tempi, tant'è che al racconto di Django si è anche obiettato di essere razzista e irrispettoso. Altra tara esasperante: parlare di qualcosa è per forza essere pro o contro, l'aut/aut è arrivato a un tale punto di saturazione da pretendere di impedire ogni altra forma di comunicazione o espressione. Così se scrivo di Hitler divento nazista od offensivo per qualcuno; se giro un film sui razzisti manco di rispetto ai discendenti o sono a favore del Klan... Si può avere pietà di una cultura tanto stupida? Che pratica senza esitazione l'ipocrisia del politically correct senza rendersi conto di quanta magia vi si nasconda e non della migliore; che pensa sia meglio tacere che tentare di affrontare un problema o fare i conti col proprio passato e con la propria natura ambigua. Meno male che il buon Quentin questi problemi infimi non se li pone :)

venerdì 1 marzo 2013

Hysteria

Posso dirlo, non l'avrei mai immaginato :) Avevo visto il trailer, ma pensavo di aver frainteso. Non che si trattasse dell'invenzione del vibratore nel vero, reale senso del termine, né che la nostra briosa cultura avesse messo a punto procedure specifiche per il trattamento di una "malattia" che altro non era se non il frutto della rimozione radicale della nostra parte animale, nello specifico la parte femminile che da millenni terrorizza noi maschietti a livelli patologici. E invece... Parliamo proprio di questo, di una delle più raffinate strategie del paradigma scientifico-tecnologico - e medico, aggiungerei, anche se mi viene il dubbio che forse gli aggettivi andrebbero redistribuiti - per difendere la sua visione del mondo. Una visione parziale, distorta, allucinata che solo secoli di pratica sono riusciti a trasformare in senso comune e che le diverse figure irriducibili scontano, alla fine dell'Ottocento come oggi. Già, perché il motivo per cui hanno girato questa piacevole commedia - che ha anche il pregio di far ridere, incredibile ma vero! - non è tanto raccontarci quanto i nostri antenati temessero il piacere femminile; piuttosto mostrare come, dietro il velo del discorso scientifico, si nascondano pregiudizi, paure e interessi dei quali spesso neanche i vari paladini sono consapevoli. Spesso, ma non sempre. La definizione della "malattia" è interna al sistema; sovente ha dei motivi, un'utilità, una capacità di cura; a volte risponde ad altro: l'equilibrio del sistema stesso, la difesa delle sue allucinazioni o dei suoi pilastri (che capitano essere, sempre a volte, la stessa cosa), la distribuzione del potere nel suo seno. Ieri era l'isteria, oggi forse la sindrome da deficit d'attenzione o le difficoltà a socializzare o qualche forma di pazzia più adatta di altre per risolvere anomalie o mascherare verità scomode. Sì, con Hysteria si ride, ma è opportuno pensarci sopra, dopo.

domenica 17 febbraio 2013

Hugo Cabret


Mica una cosa facile. Un film che è un sacco di cose tutte insieme e che all'inizio finge di essere qualcosa che non è. Inizio non particolarmente azzeccato, tra l'altro, e stavolta non so se per una scelta di ritmo narrativo o per errore. Comunque, cos'è Hugo Cabret? Una fiaba, un atto d'amore verso il cinema, un messaggio tra le righe, un testo di riflessione immaginale. Questo e altro, contemporaneamente. Proprio ieri sera davo atto a un vecchio amico di aver intuito la potenza di questa parola molto prima di me; parola immensa, soprattutto per chi si ostina a restare chiuso nella logica discorsiva sequenziale. Penseremo pure in sequenza - e se ne potrebbe discutere - ma certo viviamo in sincronia: processi fisiologici, mentali, simbolici si intrecciano e si allontanano, avvengono senza cura per le nostre capacità analitiche o di comprensione. Aprire gli occhi a questa "semplice" constatazione è forse il primo passo verso la saggezza. Così, Hugo Cabret è questo sciame di significati, uno dei quali in particolare mi è piaciuto: l'incontro poetico tra meccanica e sogni, tra la rassicurazione esistenziale della struttura ("se tutto è connesso e ha un senso, allora anch'io ce l'ho") e il suo utilizzo non utilitaristico; il piegarsi delle due dimensioni principali dell'essere umano - homo sapiens e demens - l'una verso l'altra in un abbraccio disarmato è quello che mi augurerei per il prossimo secolo, non tanto per me che qualche passo l'ho già fatto, ma per questo povero mondo.

lunedì 11 febbraio 2013

The Following

Povero Poe! O forse mi sbaglio e sarebbe lusingato da tanta attenzione, anche se piuttosto malata. Comunque l'immaginario del tempo è pieno di uomini neri dalle connotazioni più diverse: non morti brutti (zombie) anche se ultimamente perfino amabili; non morti fichissimi (vampiri, in Twilight addirittura scintillini :) e ne so qualcosa; incroci assortiti tra uomo e bestia (mannari di ogni forma ed estrazione); e infine uomini cattivi d'ogni risma. E' piuttosto evidente che l'evacuazione del male da parte della razionalità sta facendo fare gli straordinari a tutto il resto, con risultati interessanti e preoccupanti al tempo stesso. Che i creatori di trame abbiano intuito il fascino del tema non significa che il suo sfruttamento onnipresente abbia solo a che fare con gli incassi, come ci raccontiamo spesso; vuol dire piuttosto che c'è un vuoto vasto e spaventoso, un abisso al cuore della modernità, che qualcuno o qualcosa deve riempire. Da questo punto di vista The Following - che parte ufficialmente domani, per cui per una volta sono in anticipo, roba da veri giornalisti lol - opera su diversi piani. Offre una variante originale - e non è facile! - dell'inflazionata figura del serial killer, uomo nero per eccellenza e manco a dirlo oggetto di fanatismi incomprensibili ai più, andando a esplorare proprio questo fascinum, antico termine latino dai significati oscuri e numinosi: l'attrazione malata, come dice la nostra cultura che di malattie se ne intende, per figure carismatiche ed eccentriche, che a volte sconfina nel culto. "Non usiamo quella parola," dice un'agente dell'FBI, rivelando la strategia principe che si usa da qualche decennio a questa parte: se non lo dico, non lo nomino, non esiste. A farci caso era esattamente la strategia che doveva tenere a bada Voldemort e guardate com'è andata! L'argomentazione che segue è però lucida: se la gente è vuota, occorre qualcuno che sappia riempirla, di sogni, emozioni, brividi e siccome, a forza di stigmatizzarle, tutte queste cose vengono percepite come malvagie non possono che essere appannaggio dei feroci, degli assassini, degli uomini neri. Non c'è che dire, proprio un bel risultato...


Una sola chiosa, en passant: gli uomini vuoti non ci diventano per caso e non basta solo l'evacuazione di tutto ciò che non è razionale; occorre anche una disattenzione lunga e dolorosa per l'intero versante interiore, la trasformazione della cultura in una serva dell'economia, nel lavoro come nel marketing, l'abiura all'umanità come tratto programmatico di una visione del mondo. Orsù, continuiamo a preoccuparci di affari e finanza, gli uomini neri hanno quasi vinto.

lunedì 4 febbraio 2013

Last Resort

Spezzerò una lancia per Last Resort nella convinzione che si tratti di una serie one-shot, specie rara della quale sento la mancanza :) Mi rendo conto che l'idea stessa di serial è contraria a questo mio desiderio, perlomeno a uno sguardo superficiale e tanto per cambiare economico: cosa di meglio dal punto di vista della produzione di una narrazione che riesce a proseguire e farsi vendere per n stagioni, sostituendo pian piano (a volte neanche tanto piano) l'innovazione o addirittura la sperimentazione con la sana routine? Una routine, va detto, rassicurante sia per il fruitore che per il venditore, che inizia presto o tardi la combinatoria dei rapporti amorosi e una serie di colpi di scena prevedibili, sperimentati e capaci di soddisfare i più, i quali per l'appunto proprio quello andavano cercando: una storia nota sotto mentite spoglie, un altro modo per confermare il noto e fugare l'ignoto.





Però una serie può essere anche altro. Può essere narrazione di una storia che non si riesce a chiudere nell'arco breve di un film, strumento per tratteggiare personaggi di un certo spessore, indulgere in rimandi colti e divertiti capaci di rievocare un intero clima culturale - come nell'altro cult qui accanto, Life on Mars, che ricordo sempre con grande piacere e presto rivedrò - e soprattutto riascolterò! Può essere segno di un coraggio di cui si sente la mancanza: in minore, nella capacità di non tirare troppo la corda e rinunciare a possibili guadagni futuri in nome della coerenza di un racconto o di un'idea; in maggiore, nella creazione di personaggi di cui personalmente comincio a sentire la mancanza: personaggi forti, decisi, eroici nel giusto senso del termine. E' paradossale, ma una cultura dell'aut/aut, del bianco e nero in tutto, chiede al suo versante immaginale di supplire alle sue mancanze di raffinatezza e profondità e trasforma i suoi eroi in figure deboli, indecise, combattute - come sono d'altronde la gran parte dei suoi abitanti, fiaccati dalla costante erosione del carattere e dello spessore etico e morale.



Così non c'è neanche più salvezza nell'immaginazione. Anche lì troviamo gli stessi patetici uomini piccoli che ci circondano, incapaci di farsi carico del loro dono o del loro destino, pronti a vendersi per pochi denari e a volte, nei casi migliori, di avere il buon gusto di provarne vergogna. Non è questo che dovrebbero essere gli eroi. E non a caso il comandante Chaplin - un notevole Andre Braugher - non è affatto così: sa bene dov'è il giusto e dove lo sbagliato e si comporta di conseguenza, senza cedimenti e pagando il prezzo adeguato. Dice molto di una cultura che gli unici a comportarsi in modo degno siano un pugno di personaggi di fiction...

domenica 13 gennaio 2013

L'atlante delle nuvole

L'avevo detto che oggi avrei battuto un colpo per il versante più "sofisticato" del cinema. E così è stato. Cloud Atlas è un bel rientro, in special modo in matinée alle 11 :) Tanto per cambiare, il mio essere un tantino inattuale non mi ha fatto prendere coscienza in anticipo del dibattito innescato dal film, di cui trovate qui un buon riepilogo. Così non mi sono posto - come sempre d'altronde - domande sul botteghino, la ricezione del pubblico e le doti più specificamente filmiche della cosa. L'ho guardato in modo il più possibile im-mediato e devo dire che mi è piaciuto assai. Anzi, devo dire che quando esco da incontri di questo genere mi sento meno solo :) A essere proprio sincero, mi sono anche un tantino commosso, perché trovare la materia su cui rifletto e scrivo da anni, che cerco di insegnare e proporre alla critica soggettiva più ampia, fatta film è piacevole, dà un po' il senso di un sentiero che vale la pena di percorrere. E' vero, ormai la frase "Tutto è connesso" è perfino inflazionata. Se ripenso a Jurassic Park o a Dirk Gently agenzia investigativa olistica del compianto e geniale Douglas Adams, vedo le prime prese di coscienza visionarie, ma la domanda è: questa inflazione è dovuta solo a una moda oppure segnala un movimento profondo dell'immaginario? Come dicevo ieri, la narrazione di questo tempo è sempre meno coerente col regime diurno della modernità, sempre più sensibile e attenta alla relazione. Credo che Simmel si sarebbe commosso anche lui vedendolo, perché la sua Wechselwirkung è oggi racconto più o meno condiviso, interferenza continua tra scienza, pensiero orientale, arte e perfino industria cinematografica. E Durand non avrebbe potuto non notare che qui siamo in pieno notturno, nella confusione delle linee temporali - uno dei tabù più consolidati della nostra cultura - dei generi narrativi e sessuali, della coerenza narrativa che si emancipa dalla linearità del Logos per tentare di dire altro. Una sensazione, un'intuizione ancora informe, ma che viene precisandosi passo passo. Questo ritengo sia importante, al di là delle difficoltà o meno della trama, delle fulminazioni più o meno felici - bellissima l'idea dell'Unanimità e il refrain dell'Ordine, in piena critica dello strutturalismo razionale. Imho film e libri di questo genere annunciano un altro futuro possibile, per la nostra cultura e per la Terra.

sabato 12 gennaio 2013

I mercenari

Sì, è vero, non sto guardando film propriamente da intellettuale in questo periodo, anche se domattina dovrei riprendere la retta via :) E' anche vero, però, che a voler investigare i movimenti dell'immaginale troppa riflessione non serve: ci sono logiche che sfuggono alla logica e mettere un discorso in immagini può far pagare alle immagini un caro prezzo. Non che qui non ci siano altre logiche in gioco, per carità: spettacolo e botteghino riescono a essere anch'essi piuttosto fuorvianti, ma in un certo senso li trovo più malleabili, permeabili forse. E qui, in The Expendables, accade qualcosa di strano: Mickey Rourke in un raro momento di introspezione disegna il ritratto dell'uomo moderno, più che del mercenario stagionato: "nella mia testa è tutto buio, come Dracula"... Morte emozionale, morte valoriale, un volto imprevisto per gli "uomini vuoti" di Eliot in un contesto dei meno probabili. E non solo: una compagnia di macchine da guerra incallite che affronta un esercito e devasta fino alle fondamenta un'isola immaginaria del golfo caraibico per... amicizia, amore, ideali? Roba da matti! Slittamenti consapevoli o no, pochi testi dicono il tramonto dell'economicismo meglio di questa pellicola all-stars diretta da Rambo che mischia temi, ritmi e cliché con intuito notevole. Come se l'età che avanza liberasse da schemi soffocanti. Tra infanzia e vecchiaia ci sono molte più affinità di quanto non sembri.

giovedì 3 gennaio 2013

Mission Impossible - Protocollo fantasma

Va bene umanizzare gli eroi, per carità... La domanda è: perché? Quale strano meccanismo di assimilazione, omogeneizzazione ci spinge a non voler altro da noi, quando ciò che siamo notoriamente non ci fa impazzire? Abbiamo gli eroi classici, duri e puri, ma no, non possiamo accettare che non abbiano anche loro qualche debolezza. D'altronde pure Achille, no? Quindi... Non che in Mission Impossible 4 - Protocollo fantasma ci siano riusciti granché, ma la dinamica è diffusa e divertente: eroi in crisi esistenziale per la loro diversità, antieroi, abissi di contraddizione e sofferenza a gogo. Cos'è, invidia? O rifiuto di prendere atto della nostra imperfetta umanità? L'eroe sta lì apposta, per redimerci, sacrificarsi al nostro posto, accompagnarci per un po'. Perciò ogni tanto accettiamone uno senza se e senza ma, che passa da una peripezia impensabile a un'altra come noi passiamo da un canale all'altro alla tv e cerchiamo anche di essergli riconoscenti, perché il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo :) Qui andiamo da un'esagerazione all'altra con ritmo ed effetti spettacolari e anche qualche risata. E alla fine un momento di tristezza, molto passeggero. Non sarà proprio intellettuale, ma godersi la pienezza del simbolo a volte è divertente!