domenica 15 gennaio 2017

Perfetti sconosciuti

Be' decisamente un bagno di sangue, più che un film! Un bagno di sangue necessario, ben scritto, con un cast eccellente - sono talmente tanti e bravi che mi risparmio le menzioni dirette se non per Marco Giallini e Valerio Mastandrea che come ormai saprete è uno dei miei preferiti in assoluto - ma pur sempre un bagno di sangue. O anche una mattanza, tanto per spiegarmi con efficacia. Non credo sia solo questione di ipocrisia, anche se l'ipocrisia regna sovrana: c'è molto d'altro, delle falle nell'autorappresentazione che cominciano a esorbitare seriamente l'intenzionale per avvicinarsi all'essenziale. "Siamo frangibili," dice alla fine Giallini, che comunque è quello che ne esce meglio. Molto più frangibili di prima, per un'inveterata prassi a pensarci meglio di quel che siamo e a rifiutare a prescindere i lati oscuri e i desideri men che armonici ai vari modelli demenziali che ci vengono martellati addosso sin dalla più tenera età. L'ossessione diurna per la trasparenza e l'illusione che essere razionali equivalga ad essere buoni e inappuntabili giocano scherzi pessimi, cui possiamo sommare senza problemi l'atteggiamento moralistico, farisaico e la falsa superiorità pezzente che porta con sé, che l'amico Cosimo dimostra alla perfezione. Ne deriva un mix infernale che si sedimenta e dà a vedere nel grande imputato di questi anni, lo smart phone - che tanto smart, dopo il film, non sembra e soprattutto non sembra appartenere a smart people di sorta.

"Quante vite stai vivendo?" chiede il trailer e risponde "Una pubblica, una privata, una segreta". Il problema è che il segreto è un affar serio, quello stesso che il cinismo di qualche secolo fa affermava essere già troppo diffuso se lo si conosceva in due. Con ridondanza durandiana, il tema torna a ogni piè sospinto, perfino nella psicoterapia inoffensiva di Rocco, nei suoi rapporti - così ben disegnati - con la figlia adolescente: è più che altro un'ossessione, pensabilissima da parte di persone costrette a immaginarsi monodimensionali, prevedibili e accettabili contro ogni pressione interiore ed esteriore. Dalla difficoltà di una fedeltà adamantina in condizioni quotidiane di perenne tentazione vestita da esigenza di fuga e di affermazione all'altrettanto complicata percezione di sé alla luce di un solo imperativo, peraltro profondamente discutibile; dal disconoscimento e conseguente incapacità di apprezzare la propria complicata vita emotiva alle suggestioni onnipotenti di tecnologie che promettono sempre più di quanto sono in grado di mantenere, la sopravvivenza al tempo della connessione è sempre più delicata e acrobatica. Aggiungiamoci poi la contraddittorialità del segreto e ne verrà una pozione diabolica: il segreto rafforza e riafferma la propria unicità e il proprio potere, ma richiede una sostanza soggettiva salda e compatta per essere sopportato. Altrimenti questa la si finge e intanto si cerca in ogni modo, consapevole o meno, di farsi beccare, proprio come i serial killer di cui si discute a un certo punto attorno al tavolo. Il segreto suppura oppure si concentra e comprime come una molla che vuole scattare, in un'affermazione che è ad un tempo - anche lei! - titanica e autodistruttiva. Segreti peraltro banali, tranne qualcuno; intuibili, a volte quasi ovvi, che rivelano l'infinito gioco di specchi dietro al quale ci nascondiamo spesso, feriti, sbriciolati, irriconoscibili.

E ti chiedi: ha senso pretendere da altri quello che non sappiamo dare a noi stessi? E' una pecca atavica e inevadibile oppure è frutto di una percezione errata di noi, mutuata da convinzioni apprezzabili, ma ormai portate all'eccesso, devastanti? Non dovremmo invocare una misura anche in questo, una tolleranza e un'accoglienza reciproche che nascano dal mutuo riconoscimento? Quello vero, del proprio e dell'altrui essere cangianti, mutevoli nell'essenza, incompleti per definizione, umani?

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