martedì 14 aprile 2009

Gran TorinoStavolta la parola è "essenziale". Aggiungerei scabro, visto che sento come un'eco di Ungaretti. Scabro ed essenziale come un ciottolo di fiume. O un giardino zen. Vedere opere di questo genere mi riempie di gioia: è la dimostrazione lampante che tutte le fesserie che si scrivono ultimamente sulla creatività e gli ausili tecnologici senza i quali, poverina, non riesce a dare i suoi frutti sono per l'appunto fesserie. Alibi. Mosse non troppo sottili per scusare la superficialità e il vuoto che la gran parte di noi si porta dentro. E Eastwood è a sua volta una figura che illustra al meglio l'idea di Bildung e il tema del carattere caro a James Hillman. Un cammino ininterrotto, contento di ogni passo, dove ogni passo non serve per andare da qualche parte ma conta in sé, per il momento in cui viene mosso e il senso che crea.
Il tema del diverso, dell'odio che ispira, si sfalda lentamente in pregiudizi e riflessi di paure e ignoranze, in mancanze troppo profonde per esser dette e che consentono solo l'azione vile. Tutto è formalizzato, dagli insulti tra gang ai pasti a casa dei vicini musi gialli, ma è evidente che si tratta di modulazioni di diversa ampiezza della stessa forma: da una parte la recita che deve convincere per primo chi la mette in scena (di esistere, di valere qualcosa, di essere qualcuno); dall'altra il legame tra persone e generazioni, lo spessore della cultura condivisa. Anch'essa capace di pregiudizi, naturalmente, come tutte le culture, ma perlomeno viva e accogliente per i suoi componenti. E anche per qualche raro outsider. L'uso sottile della forma è, infine, quello che consente la mossa vincente. Uno scacco, bisogna ammetterlo, che tradisce l'unica "debolezza" del film: la fiducia ancora non appannata nel funzionamento delle istituzioni, nella macchina della giustizia, in un sistema di aspettative che purtroppo ha dimostrato più e più volte di non essere così affidabile. A noi sarebbe mai venuto in mente un epilogo così?

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