mercoledì 7 dicembre 2016

Westworld


"Everything's under control".

Il punto - o forse meglio il problema - è che non impariamo. E non sono neanche sicuro, con Beckett, che sbagliamo almeno meglio della volta prima, o di quella precedente. So però che riusciamo, a volte, a raccontarlo molto, molto bene. Westworld è uno dei casi in cui questa abilità si dà a vedere con forza emblematica, con un potere di meravigliare e lasciare attoniti che capita di rado. Sarà la rinnovata attenzione alle costellazioni simboliche, sarà la vicinanza tematica a tante delle mie ricerche, l'esperienza estetica di questa prima stagione è di quelle che impediscono di non scriverne subito, senza riflessione, come un omaggio cui non puoi sottrarti.

C'è una tale messe di simboli potenti da richiedere altro studio e applicazione! Vista la scarsa qualità della memoria di questi tempi, però, credo che una breve nota sia utile anche per futuri sviluppi. Il primo tema, che ho scelto come apertura, è senz'altro il controllo, l'ossessione della nostra cultura e in particolare di questa sua configurazione al tramonto. Controllo che ci si illude ci metta al riparo dall'infierire del tempo e ci doni al tempo stesso un senso che ci sfugge sempre più. Dice Ed Harris, non a caso l'Uomo (in) Nero: "You know why this beats the real world, Lawrence? The world is chaos. It's an accident. But in here, every detail adds up to something." Qui l'ordine regna sovrano e il dominio e la possibilità di trascendere la propria insignificanza umana. Non a caso lo slogan del parco è "Dove tutto è permesso". Come commenta Anthony Hopkins, il demiurgo di Westworld, "abbiamo distrutto e devastato, sterminato ogni concorrente e quando non abbiamo avuto più nessuno da dominare abbiamo creato questo." Per poter continuare a essere quello che siamo convinti di essere pressoché da sempre: quanto di più vicino a Dio sia pensabile. Nei pensieri più reconditi persino meglio.

E non impariamo. Continuiamo a cercare il senso fuori, a cercare il labirinto da qualche parte nell'oscurità del sottosuolo o nascosto tra le gole rocciose. Mentre il saggio sa che il labirinto è altrove: "When I was first working on your mind, there was a pyramid I thought you needed to scale, so I gave you a voice, my voice to guide you along the way. Memory, improvisation, each step in order to reach the next step, but you never got there. I
couldn't understand what was holding you back. Then, one day, I realized I'd made a mistake. Consciousness isn't a journey upward, but a journey inward, not a pyramid, but a maze. Every choice will bring you closer to center of send you spiraling to the edges, to madness."
L'Uomo Nero questa cosa proprio non la capisce. C'è bisogno che Dolores, la Salvatrice, la Sterminatrice (il nome sarà casuale?) gli spieghi quanto poco ha capito da tutte le sue visite al parco: "I'm not crying for myself. I'm cryin' for you. They say that great beasts once roamed this world. Big as mountains. Yet all that's left of them is bone and amber. Time undoes even the mightiest creatures. Just look what it's done to you. One day, you will perish. You will lie with the rest of your kind in the dirt. Your dreams forgotten, your horrors faced, your muscles will turn to sand, and upon that sand a new God will walk, one that will never die."

Il Tempo torna incessante. E la forza dei cyborg - perché questo sono i residenti di Westworld, macchine confusionarie e confuse, notturne, dove albeggia una coscienza che questa volta avrà tempo - è proprio di poter soffrire per tutto il tempo che serve. Di poter tornare più forti, temprati dal dolore e dall'esperienza per noi inconcepibile della morte. Di essere immortali, come noi sognamo di essere da sempre senza riuscirci. Senza voler imparare che siamo ciò che siamo solo grazie ad essa e all'urgenza di vita che ci dona. Dovrebbero essere macchine rassicuranti e in effetti per un certo periodo lo erano. Quanto lo rimpiange l'Uomo Nero: "You used to be beautiful. When this place started, I opened one of you up once, a million little perfect pieces. And then they changed you, made you this sad, little real mess, flesh and bone, just like us."



 
C'è infine la BIldung, che come tutto ormai deleghiamo alle macchine. Come agli smart objects, convinti che tanti di essi facciano gli smart people, mentre non ne fanno che una triste apparenza o un sogno schizoide. O una costante disillusione, il perpetuo non essere all'altezza così comune in questi giorni grigi. I cyborg, non più lindi e ordinati come nei desideri della modernità economica e delirante, ma carne e sangue e circuiti raffinati riescono - al prezzo delle tante sofferenze che gli infliggiamo - a percorrere il labirinto interiore e a trovarsi. Nel cuore della metafora. Al centro dell'universo.

Chissà se noi ne siamo più capaci... 

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