domenica 22 marzo 2009

The WrestlerLa parola è "tardi". Quella che descrive il film, intendo. Spero vivamente che per Mickey Rourke, nella vita reale, non valga, perché non credo se lo meriti. A guardarlo si direbbe che abbia pagato abbastanza e un po' di pace e di soddisfazione alle volte ci stanno. Per the Ram, invece, è decisamente tardi. Non per toccare un'ultima volta la platea e non mi riferisco solo al suo pubblico, la sua famiglia. Parlo anche di noi al cinema, col fiato corto se non addirittura in apnea, collo stomaco chiuso e un'incredibile, spiazzante sensazione di fragilità allo sterno, proprio lì dove c'è la cicatrice. A furia di sentirlo usare in contesti grigi come X factor, avevo perso il senso del verbo "arrivare". Qui invece mi è stato restituito appieno, se non portato a nuove capacità descrittive. Non so quanto bravo sia stato Sean Penn - che peraltro adoro - ma stavolta so a prescindere che l'Oscar se lo sarebbe meritato tutto questo "vecchio pezzo di carne maciullata", perché non mi ricordo che qualcun altro mi sia arrivato così dentro, che sia riuscito a trasmettere con una tale efficacia animale il senso del guerriero e della sconfitta. Perché Randy non è un padre, né un compagno, né un banchista. E' uno che è nato per combattere, ha il suo demone impietoso e feroce e come un antico sacerdote non può che dargli il sacrificio che pretende. Non solo sua figlia, non solo una bellissima e struggente Marisa Tomei... D'altronde si sa - e raramente si apprende con tanta chiarezza - il demone è smisurato.

Mickey Rourke in The Wrestler
 

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