sabato 4 giugno 2005

Non mi capita spesso di non aver voglia di scrivere, però quando succede è drastico. PROPRIO non ne ho voglia, qualunque altra cosa è più importante, urgente, oppure - ed è la cosa peggiore - la sola idea mi mette a disagio, mi fa venir voglia
Biglietto mostradi scappare, fisicamente o figuratamente a seconda dei casi. In questi giorni non starò a questo punto, ma ci vado assai prossimo. Eppure ho deciso di forzarmi a buttar giù qualche riga perché la mostra indicata qui accanto - con una delle tele più belle come emblema, un Manet - vale la pena di un piccolo sacrificio, anche se apparentemente minimo.
Ci sarebbero tracce e tracce di riflessione e studio - e non solo da un punto di vista artistico - a cominciare dal fenomeno del collezionismo e dalla "religione" del non oggettivo che lo ha guidato per decenni, ma quello che mi ha più colpito - pur nella stupefazione - è la differenza di universi che una mostra costruita sulla curiosità di un uomo riesce a dare a vedere.



La prima sala, dedicata a maestri del XIX secolo come Renoir, Manet, Cézanne e Van Gogh, presenta un'incredibile diversità di tratti e di impiego della materia pittorica, ma anche una continuità innegabile, una sperimentazione condotta su basi comuni. Anche la magnifica tela di Picasso Fernande con una mantiglia nera, una delle più belle dell'intero percorso, pur con l'emergere nebbioso della figura dallo sfondo emana un'aria familiare, sposata al genio unico.

E poi tutto salta! Un'intera parete di Kandinsky e ogni seppur vaga familiarità si rivela ingannevole, dall'estremizzazione del ritratto di gruppo in crinolina fino allo splendido Diversi cerchi. Eppure ancora è forte l'idea di arte, l'oscuro senso di perfezione che emana da tele indescrivibili, che sanciscono il divorzio da ogni possibilità discorsiva e richiedono l'esperienza diretta e muta.
È proprio qui che, secondo me, corre il discrimine con la seconda metà del XX secolo, con i nostri tempi.
L'intellettualizzazione delle avanguardie trasforma l'idea di arte in quella di enigma, di boutade, di affermazione criptica che non è possibile decrittare senza una sempre crescente preparazione teorica e - quel che è peggio - senza la condivisione dell'universo valoriale e spesso esperienziale dell'autore. L'opera d'arte non si sente più, non si sperimenta: la si deve spiegare. E l'arte scompare.
Non ovunque, certo, non sempre. La sensazione, però, è sempre più spesso di amara presa in giro, o tutt'al più di satira geniale e redditizia, come in Warhol, ampiamente rappresentato. Manca del tutto l'esperienza estetica descritta da Gadamer e provata in tante occasioni, il brivido, lo stupore a volte invidioso per l'abilità e la maestria dell'artista. A volte. In altri casi i panorami sono alieni, sognanti e affascinanti, come in Rothko, dove l'essenzialità non appare affatto l'alibi dell'incapace, ma un mezzo espressivo potente e profondo.

3 commenti:

  1. Però quando ci si mette, scrive in maniera deliziosa. Mi ricorda tanto

    "L'Opera d'Arte come Isola". Di un certo F. d'Andrea. Lo vada a leggere. Tra l'altro l'autore è molto promettente.

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  2. Le ultime sale sono di un gelo indescrivibile proprio perché l'interpretazione si fa univoca..Avrei pernottato volentieri al primo piano... magari davanti a Chagall, sapendo che il mattino seguente mi sarei svegliata affianco al soldato che beve...;o)

    Eleo.

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  3. ora, proprio promettente, non ti pare di esagerare?

    Magari certi autori giovani poi si montano la testa....


    Vorrei comprendere meglio il concetto, da lei espresso, dell'impossibilità di decrittare l'opera d'arte. Certamente l'opera è un vero e proprio linguaggio, una parola che trasduce il modo di vedere la realtà o l'irrealtà dell'artista, ma è anche fonte di sensazioni nel fruitore... Non basterebbe osservare e sentire, e magari dopo apprendere il necessario "vocabolario" atto ad una lettura "inttelletuale" dell'opera stessa?

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