sabato 3 maggio 2008

BabelPer un po' mi sono chiesto il perché del titolo. Non vedevo problemi di comunicazione tra i vari personaggi che si aggiravano per lo schermo. Come formiche impazzite. Poi, pian piano, mi sono reso conto che la questione era più sottile e più insidiosa, aveva a che fare con la metalingua della cultura, col letto di Procuste nel quale riduciamo ciò che ci accade a un formato secondo noi comprensibile. E che genera interpretazioni discordanti, lontane anni luce l'una dall'altra e da quella che pare la verità degli eventi. Così una semplice, insensata bravata giovanile si trasforma in un attentato islamico contro gli Stati Uniti e la lingua dei media e delle istituzioni è incapace di esprimere la crudeltà gratuita del Caso - che è, neanche a farlo apposta, anagramma di caos - e rischia perfino di costare la vita alla vittima prescelta. Allo stesso tempo la lingua dei turisti è nell'impossibilità di esprimere lo stesso evento, che si inserisce con effetti devastanti in quello che doveva essere un succedersi di avvenimenti preconfezionato e controllabile: l'oscenità dell'incomprensione quando la mente ha perso ogni flessibilità e adattabilità allo scorrere della vita è forse il tratto più crudo e soffocante del film, la violenza dell'abbandono, del pullman che se ne va per ristabilire la magia rassicurante della tabella di marcia, il fresco dell'aria condizionata, la fine dell'involontaria e spaventosa contaminazione con il vero Marocco, fuori delle cartoline e dei dépliants patinati... Ed è la stessa sordità compiaciuta degli agenti di frontiera americani, che non sanno leggere una messicana con due bambini bianchi che come una clandestina o una trafficante di esseri umani.
Non che manchi il livello di incomunicabilità tra culture diverse,
che mi pare però secondario rispetto al tema principale. Urlanell'episodio succitato della sosta forzata in un villaggio non preformattato per turisti, dove la gentilezza accogliente degli abitanti si scontra con la paura e il sospetto di chi è partito senza lasciarsi alle spalle le sue ossessioni e i suoi schemi. Affiora però anche durante i preparativi per il matrimonio chicano, quando i bimbi biondi e statunitensi impattano con violenza simbolica in usi un tempo quotidiani e ora alieni come il tirare il collo a una gallina. E nelle parole spontanee di Gael Garcia Bernal, che vede gli stessi bambini come un problema e una minaccia...
E' un film di scontri e di sofferenza, che intreccia trame di ordinaria insensatezza nella speranza di trarne una qualche logica o forse nell'intento di mostrare l'inutilità del tentativo. Il gesto di amicizia e rispetto del cacciatore giapponese verso la guida marocchina è ciò che dà il via all'incredibile eppure così reale catena di eventi che porta alla miriade di catastrofi grandi e piccole che si costella in Babel. Una rappresentazione verosimile e sconfortante di pigrizia mentale contro l'indifferente ferocia del Destino, un esercizio a perdere di incasellamento degli avvenimenti in caselle ordinate, sterilizzate e comprensibili, inutile come l'attenzione di Cate Blanchett per la qualità del ghiaccio nella Coca e il successivo doversi far dare dei punti con un ago sterilizzato alla fiamma di un accendino usa e getta. Lo definirei un arabesco di gesti immaginali forti che ritrae un'umanità incapace di riscatto.
Un'immagine di Babel

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